
Napoli, fuori dai “bassi” e oltre le scenografie consunte di una napoletanità ridotta a folklore, ha ancora voce. Una voce nuova, che però sa di antico. È quella di Massimo Troisi, artista capace di raccogliere il testimone di Eduardo De Filippo senza imitarlo, ma trasportandone l’essenza oltre i confini della tradizione. A raccontarlo è Roberto Vecchioni, in una toccante prefazione che diventa essa stessa riflessione sull’arte, sulla vita e sul teatro.
Massimo non è il solito attore napoletano ingabbiato nella maschera che la città si porta addosso. È un Eduardo fuori dai “bassi”, aperto al mondo, a contatto con le “voci di fuori”. Quelle voci diverse, estranee, talvolta disturbanti, che rompono la liturgia della recita conosciuta. Eppure, è proprio nel dialogo con l’altro che esplode la sua risata serena, fanciullesca, un modo di reagire alla mediocrità, all’arroganza, al potere. Non una risata amara o cinica, ma una risata che, pur coprendo il rumore del male, lascia spazio a una malinconia sottile e dignitosa, la vera cifra del suo sentire.
Quella di Massimo è una doppia maschera. Una comica, perfino dolente, capace di far ridere e, insieme, di far soffrire. L’altra è tragica, ma ha l’ironia di spernacchiarsi da sola, costringendoci a guardare il tragico con distacco, con un’amara leggerezza. In entrambe, il riso e il pianto si rincorrono come in un minuetto malinconico.
Nel suo teatro, nella sua voce, tutto è ridimensionato alla misura dell’uomo: i grandi sistemi, le rivoluzioni, le disfatte epocali, ma anche gli entusiasmi sfrenati e le piccole vittorie quotidiane. Tutto si ricompone nella “splendida miseria” dell’esistere, che Massimo non esibisce, ma racconta. Con pudore. Con misura. Con la consapevolezza che, forse, ciò che abbiamo perduto – o che non avremo mai – non è qualcosa da rimpiangere, ma da conservare nella memoria del cuore.
L’intervista: Rosaria Troisi racconta il Massimo privato
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Rosaria Troisi, sorella di Massimo e autrice di numerosi scritti dedicati alla memoria e all’eredità culturale dell’attore.
“Massimo non voleva essere considerato un comico ‘classico’. Non amava le etichette. Dietro quella sua risata c’era sempre un pensiero profondo, un senso di incompiutezza, di fragilità. Quando saliva sul palco o si metteva dietro la macchina da presa, lo faceva con un’urgenza quasi fisica: quella di raccontare il mondo come lo sentiva lui, con tenerezza e disincanto”, ci ha detto Rosaria.
Durante l’incontro, l’autrice ha condiviso anche alcuni retroscena familiari:
“Massimo era molto riservato, anche con noi. Scriveva di notte, spesso da solo. Non si lamentava mai della malattia, non voleva pietà. Il dolore lo trasformava in poesia, in dialoghi, in scene che oggi sembrano scritte per essere eterne.”
Un ricordo toccante, quello di Rosaria, che restituisce tutta la profondità di un artista amato e indimenticato, che ha saputo coniugare leggerezza e pensiero, sorriso e malinconia, tradizione e modernità.