Sirignano nello splendore del Settecento: “Cumm vurrìa vedé’ ’a stella re’ ’Re Magg’”

Sirignano nello splendore del Settecento: “Cumm vurrìa vedé’ ’a stella re’ ’Re Magg’”

​Tra le pieghe del tempo e la polvere della memoria, si svela un’immagine dal fascino austero, una pergamena visiva. Questa fotografia in bianco e nero non è solo lo scrigno di un’architettura sacra, ma l’inizio solenne di una storia d’amore e la promessa della continuità di una famiglia storica sirignanese.
​Lo scatto fu catturato un’ora e mezza prima che il sacro vincolo fosse pronunciato: un matrimonio meraviglioso che simboleggiò l’amore eterno e la continuità della famiglia dei nostri Nonni attraverso la figura di nostro Padre. Quel giorno, in un mese tradizionalmente dedicato all’amore, il Tempio ospitava una vera e propria esplosione di fiori, un omaggio floreale degno di una cattedrale, che ne magnificava la bellezza per celebrare l’unione.
​Questo scatto d’epoca ci offre una rara e potente testimonianza dell’interno del Tempio della Cristianità, dedicato al Santo pescatore di Patrasso, risalente al Cinquecento, a Sirignano. Si nota, in tutta la sua imponenza, l’Altare Maggiore Barocco ligneo, sormontato nella foto dalla parte superiore con l’iscrizione “ALTARE PRIVILEGIATO”. In questa sezione, risaltava un medaglione circolare affrescato con la maestosa lettera “M” (omaggio a Maria).
​Al centro dell’abside, sul presbiterio di marmo, risplende l’antico e imponente Crocifisso d’Altare ligneo settecentesco, probabilmente attribuibile alla rinomata Scuola Napoletana, circondato dalla luce dei suoi dieci candelabri lignei, emblemi dei Dieci Comandamenti. Il Crocifisso si erge come fulcro teologico e visivo, testimone supremo del vincolo matrimoniale e simbolo del Sacrificio di Cristo nella pienezza luce di Dio Padre Onnipotente. Questi elementi, che solennizzavano le cerimonie, definivano la maestosità del Tempio in quel giorno sacro, custoditi nella memoria del tempo che fu.
​I Dettagli della Fotografia e il Sacro Rituale
​Nella visione d’insieme della chiesa, si possono notare anche i particolari del presbiterio. Si nota ancora il cancello con gli angeli davanti all’altare. Tale cancello dovrebbe risalire al tardo Settecento/primi dell’Ottocento. Inoltre, in questa foto, dove sono le piante sulla destra, c’è ancora il pulpito.

​CUMM VURRIA VEDE’ ‘A STELL’ R’E RE MAGG’

(La stella lucente dei Re Magi)

​Sono i miei ricordi, forse i più belli, i ricordi di un mondo che non c’è più, un mondo fatto di cappelli e di grandi uomini, insieme a mio Nonno Michele.
​Tutte le domeniche, il rito era sacro e immutabile. Scendevamo da Via Marconi per raggiungere Piazza Principessa Rosa, attraversando sotto le teglie, per entrare poi in chiesa dal maestoso portone.
​Prima di varcare la soglia, si toglieva il cappello e si scopriva il capo in segno di rispetto del luogo dove ci trovavamo .
​Una volta superato l’androne, si procedeva all’Acquasantiera. Si girava e procedeva a compiere il sacro gesto di benedirsi con l’acqua santa nell’Acquasantiera, proprio sotto la figura lignea, presumibilmente di epoca Sei-Settecentesca, dell’Ecce Homo – la rappresentazione del Cristo flagellato e coronato di spine, offerto alla folla da Ponzio Pilato con le parole latine “Ecco l’Uomo”. La sua posizione sopra l’Acquasantiera (simbolo del Battesimo e dell’ingresso nella Fede) è altamente simbolica, poiché il sacrificio di Cristo è il fondamento della Cristianità. L’Acquasantiera, un’opera in marmo in tardo Barocco/Rococò del XVII-XVIII secolo, celava la biscia con in bocca una rana scolpita nel fondale sotto l’acqua santa (simbolo del Bene che trionfa sul Male). Nonno mi prendeva in braccio, e io guardavo quello scenario attraverso l’acqua santa (che da secoli viene preparata la notte di Pasqua). Poi mettevamo le mani insieme per farci il Segno della Croce.
​Dopo il segno della croce, si girava per compiere immediatamente l’inchino e la venerazione verso Nostro Signore che dimora nell’abside dell’Altare Maggiore.
​Poi, i suoi occhi si alzavano verso la Pala del Mozzillo (risalente al Settecento XVII SECOLO). Questa maestosa Pala d’Altare si erge sull’Altare Maggiore, dominando tutta la navata della chiesa. La grande Pala, ufficialmente chiamata la Cona grande della chiesa di Sant’Andrea Apostolo, raffigura l’Apparizione della Madonna delle Grazie, con Gesù Bambino, ai santi Giuseppe, Andrea Apostolo e Lucia. Sant’Andrea legge un passo del Vangelo tra San Giuseppe, Santa Lucia e la Madonna delle Grazie su un trono di nuvole con gli angeli in una scena intensa, probabilmente in contemplazione. Il versetto che Sant’Andrea, in posa contemplativa, sembra pronunciare… è una solenne dichiarazione:
​”O BUON CRISTO, A LUNGO HAI CERCATO, E ORA FINALMENTE HAI TROVATO IN ME ANDREA TUO PRIMO APOSTOLO, PROTETTORE DI SIRIGNANO”.
(In latino: “O Christe bone diu quaesivisti, et nunc tandem in me invenisti Andream, Primum Apostolum Tuum, Protectorem Sirignani”).
​Questa era la prima visione che lo accoglieva appena varcata la soglia.
​È importante notare che, per evitare che l’Altare Maggiore venisse saccheggiato durante la guerra, tutto l’intarsio ligneo dell’altare fu sapientemente ricoperto di vernice. Anche i dieci candelabri — che simboleggiano i Dieci Comandamenti — vennero rivestiti di vernice color argento per proteggerne la preziosa finitura originale. Questi capolavori, che hanno riacquistato il loro antico splendore solo con l’ultimo restauro, completato negli anni 2003-2004, restano i simboli della Fede che ha guidato intere generazioni.
​Dopo l’inchino e la venerazione, attraversavamo in trasversale la navata principale per raggiungere i suoi amici. Nonno MICHELE si disponeva in piedi con i suoi amici: Zi’ Peppe e Zi’ Michele ‘o Palumm’, Mast’ Affonzo ‘o Falignam’, Don Michele ‘o Farmacist’ (sindaco) con Don Gaitano e Don Ciccio. Loro si posizionavano vicino alla Fonte Battesimale che si trovava prima in fondo alla chiesa, vicino alla porta che portava alle scale del campanile, aspettandolo per la Santa Messa.
​Tutti questi grandi uomini ascoltavano la Santa Messa sempre in piedi, con il cappello tra le mani.
​Io tiravo la giacca a mio nonno perché, siccome ero un bambino, non riuscivo a capire e a vedere che succedeva davanti a me. Allora, lui mi prendeva e mi metteva all’impiedi sopra la balaustra di marmo della Fonte Battesimale. Quella balaustra era diventata il mio pulpito dove assistevo alla messa domenicale.
​L’antica Fonte Battesimale era una magnifica opera in tardo Barocco/Rococò del XVII-XVIII secolo, caratterizzata dalla sua forma a ombrello. La sua collocazione all’ingresso non era casuale, ma rispondeva all’antica e profonda tradizione ecclesiale: il Battesimo è il primo sacramento, la porta che segna l’ingresso nella comunità dei fedeli e nel Tempio di Dio. Mi fu raccontato che fui battezzato proprio in quella fonte, il 7 agosto del lontano 1969, giorno del Bambinello di San Gaetano (questa data mi lega alla data di nascita di mio figlio Carlo). Quel giorno, oltre al Parroco di Sirignano per l’occasione del rito del battesimo, c’era pure Padre Agostino Acierno ( Zio Stefano ‘…O Spicchione) in rappresentanza della Nostra Famiglia ( Nonna Utilia a Cuntessa ).
​Purtroppo, questa Fonte fu al centro di un atto di profondo oblio e distrazione: si narra che in una sola notte, la sua bellezza fu trafugata insieme ai pregiati marmi dell’Altare Maggiore e alla lastra intarsiata con motivi floreali del prezioso Altare della Madonna di Pompei. Dopo questo doloroso vuoto, parte di quei marmi fu ritrovata, ma con l’amara, insopportabile mancanza della lastra e delle colonne dell’Altare della Madonna di Pompei. Si sussurra che questo marmo sia finito a servire come lapide o altare in qualche cappella gentilizia.
​Oggi, l’Altare della Madonna di Pompei presenta una lastra che è stata sostituita, poiché l’originale e le colonne mancanti non sono più rientrate a Sirignano. La fonte battesimale partì per un restauro, e in quel momento fu presa la scelta deplorevole di darle una nuova destinazione. Siamo convinti, però, che la Fonte debba essere smontata e ricostruita al suo posto originale, all’ingresso della nostra chiesa, per recuperare il senso profondo del nostro Battesimo. Anche perché, dove si trova oggi, un tempo si ergeva il vecchio, maestoso pulpito, una grandiosa opera di legno pregiato, intarsiato e scolpito a mano, restaurato dall’allora falegname di Sirignano Masta Affonzo o Masturascio. Si narra che fu smontato, forse per recuperare spazio per i fedeli nella navata centrale (platea), e oggi si attende che venga riportato al suo posto d’onore, come testimonianza delle innumerevoli prediche solenni che da lì furono pronunciate. Ne resta ancora oggi la sua immagine nelle tante fotografie esistenti, mentre l’antica base di marmo della Fonte è ancora lì, nell’angolo, ad aspettarla.
​Da lì, dal mio pulpito di bambino, vedevo l’altare e, sentendo solo il fumo profumato, domandavo: “Nonno, che cos’è tutto questo fumo profumato?”
E lui mi rispondeva: “Chill’ è Don Andonio (Don Antonio Sorbo da Cicciano, Parroco dal 1960) ca bbotta ‘o cienz’. Sta affummenn’ a Gesucrist’ giel’ pe’ lle dicere ca nuie pregamm’ pe’ Isso. Ricuordet’ sempe, Miche’, quand’ ‘o priete sta coppa all’aldar’, rappresenza Gesucrist’. Na vota scinnut’ ra copp’ all’aldar’, nunn’ è cchiù nisciun’… è uno cumm’ a nuie,” rispondeva zitto zitto Zi’ Peppe ‘o Palumm’. “’E capit’, Miche’? Sta assenter semb’ ‘o nonno.”
​A proposito della storia dei parroci, è interessante notare come in passato, i parroci venivano nominati e rimossi dai signori del tempo che esercitavano il diritto di patronato. Solo dopo il 1833, gli ultimi tre (Don Salvatore Napolitano da Quadrelle, Don Liberato Gallicchio da Mugnano del Cardinale e Don Antonio Sorbo da Cicciano), vennero nominati direttamente dal Vescovo di Nola, avendo i signori rinunziato al loro diritto.
​Ricordo soprattutto il Natale, il freddo pungente di Sirignano quando si attravesava l ultimo tratto di via Marconi ( Arret a catena …. dietro al Pazzo del Principe ) che si scende per arrivare in Piazza Principessa .Rosa . Quando andavamo a Messa e la giornata era nuvolosa, avvolta da un po’ di nebbia, si sentiva che c’era qualcosa di celestiale e di magico nell’aria, un’attesa che iniziava già giorni prima dell’Immacolata Concezione.
​Il culmine dell’attesa era la Notte di Natale. A casa dei nonni, si giocava a tombola, un rito profano fatto di risate che si spezzava di colpo, nell’ora tarda, con il suono solenne delle campane a festa che annunciavano, finalmente, l’inizio della Santa Messa e, con essa, la Nascita di Nostro Signore. Le campane annunciavano anche l’uscita dalla Chiesa del Bambinello portato in processione nel buio della notte per le vie del centro storico di Sirignano.
​Si narra che nell’Ottocento, questi momenti di letizia e di gioia per la nascita di Nostro Signore erano solennemente solennizzati dall’Ombrello Processionale (XVIII secolo). Questo oggetto liturgico, che simboleggia la protezione e la dignità, veniva utilizzato per onorare e riparare la figura sacra in processione. L’Ombrello Processionale era manovrato e sorretto da un membro del clero o da una persona di fiducia, con grande solennità. Per la processione di Natale, era spesso l’aiutante di Don Salvatore a reggere l’Ombrello Processionale.
​In particolare, per la solenne processione del Corpus Domini, era consuetudine che la figura del Primo Cittadino (il Sindaco) avesse l’onore di sorreggere o accompagnare l’Ombrello, manifestando l’omaggio della più alta autorità civile al Sacramento.
​L’ombrello di Sirignano era fatto all’epoca di seta, taffetà e broccato rosso con filamenti e galloni d’oro e argento con lo stemma dei Principi Caravita di Sirignano. Era stato donato alla chiesa dai Principi Caravita di Sirignano, come copia di un altro antico ombrello processionale di seta rossa donato dalla stessa famiglia alla storica Chiesa di San Giacomo degli Spagnoli a Napoli, un Tempio frequentato dall’alta Nobiltà partenopea, dove il Principe Caravita era all’epoca uno stimato Patrizio Napoletano.
​A proposito dell’Ombrello: gli anni ’75 /’78 furono anni cruciali per la nostra Sirignano. In questo periodo, l’Ombrello Processionale fu privato della sua seta rossa e filati d’oro con lo stemma. Si narra che non fu possibile restaurare il tessuto originale, forse a causa dell’umidità degli antichi armadi di legno di noce in sagrestia dove era custodito. Invece di eseguire un restauro conservativo, il tessuto originale fu sostituito con un’altra stoffa pregiata ma di colore giallo, ossia del colore intenso delle ginestre che fioriscono sulle nostre montagne a Giugno per il Corpus Domini, alterando irrimediabilmente la sua autenticità e storia culturale Sirignanese.
Sirignano nello splendore del Settecento: “Cumm vurrìa vedé’ ’a stella re’ ’Re Magg’”​Il culmine di questa magia era il grande presepe scenografico con i pastori del Settecento, l’unico e più suggestivo esistente nel nostro territorio. Questo magnifico presepe, con figure attribuibili alla pregiata Scuola Leccese del ‘700, nascondeva una leggenda tramandatami dai miei nonni: il fatto dei tre monaci.
​Mio Zio Tonino mi ricordava che, pur essendo sempre lo stesso presepe, la sua posizione cambiava in quegli anni per necessità logistiche. Nello spazio della navata per la platea, dagli anni ’50 fino agli anni ’70, c’erano le sedie e gli inginocchiatoi di paglia antica. Per recuperare spazio nella navata, l’allestimento veniva fatto sotto il loggione del coro, proprio nello spazio tra la porta che conduce al campanile e l’antica Fonte Battesimale. Questo allestimento era curato dai nipoti di Don Liberato Gallicchio da Mugnano del Cardinale (Parroco dal 1914), prete di Sirignano, in particolare da Mimì (Mimi do Paricchiano), che si occupavano di creare l’atmosfera settecentesca.
​In altri anni, la grotta veniva creata aprendo l’antica Fonte Battesimale, riempiendola con paglia per creare la stalla e la mangiatoia, e aggiungendo spinapulici (pungitopo) e muschio freschissimo dalle montagne di Campimma e de Tre Castagni. Erano usate anche le… “E Cape rast”, che erano grandi catozze di legno di piante e servivano a dare vita alla grande scenografia.
​Negli anni che vanno dal ’70 fino agli inizi degli anni Novanta, l’allestimento raggiunse l’apice dello splendore, estendendosi imponente lungo tutta la navata sinistra, dall’Altare di Sant’Andrea fino ai piedi dell’Altare Maggiore. L’altare era un tempo delimitato dalla vecchia cancellaia in ferro battuto lavorata a mano con gli angeli. Si dice che forse per dare spazio alla platea sia stata smontata. Questa cancellata aveva la funzione di separare fisicamente il presbiterio (lo spazio sacro riservato al clero e alla celebrazione del rito) dalla navata centrale (la platea, destinata ai fedeli), rispettando l’antica divisione liturgica (cancello divisorio tra clero e popolo).
​Questa magnificenza nascondeva una leggenda sulla Natività, la cui verità fu difesa con fervore dal Parroco Don Salvatore Napolitano da Quadrelle (dal 1873). Don Salvatore era noto per scrivere il Latino come i Monaci Amanuensi ed era una figura pacioccona, quasi un futuro Giovanni Ventitreesimo, con un goffo portamento dei suoi antichi paramenti sacri, ma dalla grande spiritualità. Fu lui a ricostruire la chiesa (C.P.S.A.) nel 1863, trovandola in stato di grave abbandono, un’opera che lo lega indissolubilmente a quei monaci che con dedizione trascrissero e incisero le loro opere nel tempo. Si narra che Don Salvatore riscoprì e difese la versione sirignanese della Natività: quella dei quattro Re Magi, un mistero sussurrato per secoli dai “monaci del silenzio” dell’809. Egli volle che il presepe settecentesco riflettesse questa verità: non tre, ma quattro saggi. Oltre a Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, c’era Artaban. Artaban non cavalcava il cammello, ma il suo fido cavallo, e portava un tesoro che non giunse mai a destinazione. Per Don Salvatore, Artaban era l’incarnazione della devozione attiva: il Magio che spese i suoi tesori per aiutare i poveri e gli oppressi, dimostrando che la Carità al prossimo viene prima del formalismo del dono.
​Le figure erano ricchissime di dettagli, compresa la scena centrale della Natività:
Al limitare della grotta e della scena di sfarzo, vi era il Pastore Benignol – spesso chiamato ‘o pastore che dorme’ o Benino – un’antica figura del presepe napoletano. Egli giaceva addormentato in un angolo, sul muschio fresco, appoggiato al suo bastone. La leggenda popolare tramandata era che Benignol rappresentasse l’umanità ignara, l’antico mondo ancora avvolto nel sonno della ragione, che non si è ancora svegliato per il miracolo della Natività. La sua presenza è un promemoria: la vera Fede richiede una consapevolezza che deve ancora risvegliarsi dal torpore della notte.
​Il Bambinello (di Scuola Leccese del ‘700), adagiato su una culla dai colori bianco e carta da zucchero, si trovava in mezzo al grande bue e all’asinello. Attorno, la Madonna sfoggiava il suo volto angelico vestita di bianco e di azzurro, e San Giuseppe si ergeva con il suo maestoso bastone d’argento vestito di viola chiaro e mantello marrone. Sopra, un coro di dieci angeli volava, vestiti di rosa, di azzurro e di bianco, reggendo fili di argento e oro. L’arrivo dei Re Magi era sfarzo puro, vestiti in sete di San Leucio, cavalcavano i loro tre maestosi cammelli, condotti da tre Mori con abiti color bordeaux e fascia verde. La scena era animata da una folla immensa di pastori, affiancata dall’asinello che trasportava le ceste di frutta. Le statuine pregiate delle pecore si trovavano vicino alla cascata d’acqua, dove si formava un grande specchio d’acqua. Qui si notava la lavadaua (lavandaia), intenta nel suo lavoro. Fuori dalla grotta, ad annunciare l’evento, c’erano quattro zampognari e le ciaramelle.
​Dall’alto, il presepe era sormontato dal Castello di Re Erode, una copia fedele e in scala del Palazzo Caravita dei Principi di Sirignano. Ai piedi del Castello, una figura — il pastore che raffigurava Erode — guardava dall’alto la spettacolare Betlemme. Nel suo sguardo si leggeva un intento torvo e spietato: la sete di potere di chi, volendo essere l’unico re, avrebbe presto ordinato la strage di tutti i bambini.
​Fuori dalla grotta, c’erano i tre vecchi monaci, che nella leggenda erano noti come “I tre Silenziosi del Voto”. Si narrava questa favola di fede e di credo, tramandata fino ai nostri giorni, secondo cui fu il parroco storico Don Salvatore Napolitano (dal 1873) a prestare temporaneamente queste tre figure a San Giovanni a Quadrelle. Il motivo? La chiesa di Quadrelle stava affrontando un periodo di dura siccità e chiese l’aiuto delle figure sacre di Sirignano, in un solenne voto di ringraziamento per la pioggia.
​Don Salvatore era noto anche perché amava indossare per l’occasione del bacio del Bambinello la mozzetta rossa con la sontuosa stola in oro del ‘700. Alle sue vesti, infatti, si legava il termine “nonni vuene”. Si trattava della mozzetta rossa dei Canonici della Collegiata di San Giovanni Maggiore di Napoli, un privilegio concesso nel 1856 da Ferdinando II di Borbone ai Parroci di Sirignano. Il suo ritratto, conservato in sagrestia, lo immortala in questa posa solenne, con la mozzetta rossa con ermellino e la stola d’oro settecentesca.
​Tornando ai riti della Messa della mia infanzia, a quei giorni del Novecento, a fine Messa per noi bambini arrivava il momento più atteso, il culmine di tutta la festa: la gioia indescrivibile di essere portati alla grotta del grande presepe del Settecento per baciare Gesù Bambino, un gesto di fede semplice che ci riempiva il cuore.
​Agli inizi degli anni Novanta, i pastori del Settecento furono temporaneamente rimossi. Si era deciso di far donare nuove figure in cartapesta dalle famiglie di Sirignano per sostituire le figure originali che dovevano andare in restauro, un intervento necessario per preservare la delicatezza delle loro vesti e la loro struttura di manichini impagliati. Da quel momento, le figure originali furono messe al sicuro e non più esposte, in attesa di poter tornare un giorno a incantare la navata. Si dice, si sussurra, che l’intero tesoro di quei capolavori dell’arte napoletana sia custodito in quella grande e secolare cassa di legno in radica di rose e ulivi secolari, la stessa che li ha protetti per secoli, riposta nel silenzio, sotto un’arcata delle fondamenta, in attesa di un nuovo splendore.
​Il culmine di quell’incanto era la notte dell’Epifania. Mentre le campane suonavano a distesa annunciando la festa, all’improvviso, tra il frastuono esterno, si sentiva solo un fruscio: era la Stella Cometa che scendeva lenta dal loggione del coro (dove c’era una volta l’antico organo che rispecchiava negli intarsi del suo legno il colore sontuoso del Barocco dell’intero complesso architettonico dell’interno della nostra chiesa, esistente fino al sisma del 1980, dove si notano i cambiamenti. Il segno di quel sisma lasciò il loggione privo del suo manufatto dalle vibrazioni celestiali del ‘700 sirignanese) per raggiungere il presepe, illuminando i cuori dei bambini in un silenzio assordante.

​CUMM VURRIA VEDE’ ‘A STELL’ R’E RE MAGG’

​(La stella lucente dei Re Magi)

​Silenzio ‘e Chiesa, stivemo ccà,
tutt’ ‘a gente, ‘o nonno e ‘a cumunità.
Sop’a l’altare, ‘a messa è quase finuta,
ma nuje aspettammo ‘a luce ca è venuta.
‘A Stella, ‘a sai, nun era sulo ‘nu lampià,
era ‘o Destino ca se veneva a ncuntrà.
Dint’ all’aria scura, nu frusciìo leggero,
veneva abbascio, senza sentiero.
‘A balaustra ‘e marmo, ‘o pulpito d’ ‘o core,
aspettava ‘a Stella, pe’ truvà ‘o Salvatore.
Dint’ ‘o buio, sulo ‘o suono d’ ‘a discesa,
‘a speranza antica ca mo se represa.
E ‘a campana sonava a distesa, forte forte,
mentre ‘a Stella scennéva, ‘na magia ca nun more.
Illuminava ‘o Presepe, ‘a seta ‘e San Leucio ‘e culore,
‘e pasture napulitane, primma d’ ‘o dolore.
E addò truvaje ‘o Bambinello sulagno,
chill’ ‘e cartapesta leccese, senza cumpagno,
allora, Michele, capivi ‘a verità:
ca l’arte pò murì, ma ‘a Fede resta ccà.
Ma addò stanno mo, addò so’ gghiute ‘e sete?
Dint’ a che scura cassa so’ state chiuse?
Resta sulo ‘a voglia, ‘o desiderio sincero:
“Cumm’ vurria vede’ ‘a Stell’ r’e Re Magg’!”

​”Il passato non è morto, è solo cambiato. Ma l’amarezza risiede nel presente, dove lo splendore che abbiamo amato è diventato solo un eco.”

​Maicol Acierno