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di Antonio Vecchione
Da questo viaggio emerge non una ricostruzione nostalgica del bel tempo che fu, quanto un affresco colorato e schietto della realtà paesana, un universo di valori, di topografie spaziali e sociali, nella consapevolezza che, pur nella perdita definitiva di uno spazio umano, di queste figure, di questi scorci architettonici e di queste convenzioni sociali siamo comunque fatti tutti noi. Nello scenario dei vicoli e delle stradine del quartiere dei vesuni , grande importanza rivestivano le pubbliche fontanelle, unica possibilità per rifornirsi d’acqua potabile. Le modeste case, infatti, non erano dotate d’impianto idraulico, che, se non del tutto sconosciuto, era certamente fuori dalle possibilità economiche dei poveri abitanti.
Costituite da una colonnina di ghisa, più o meno decorata, e da un rubinetto d’ottone, che, grazie alla rotazione oraria oppure antioraria di una manopola a farfalla, apriva o chiudeva il getto d’acqua, le fontanelle erano posizionate negli angoli delle viuzze o negli slarghi, perimetrate da un cordoletto di pietra che delimitava, tutt’intorno alla fontana, lo spazio necessario per sistemare, sotto il rubinetto, i recipienti da riempire. La fatica per attingere l’acqua non era agevole e gravava sulle spalle delle donne (o dei ragazzi). I recipienti utilizzati, pesanti e scomodi da maneggiare, erano di legno (secchi,‘e cate, o piccole botti, ‘e varrecchie), di rame (sferici e panciuti, ‘e conche), di lamiera zincata (secchi e bagnarole) oppure di argilla (orcio di creta, ‘o mómmaro).
Per trasportarli, le donne si sfiancavano, cercando di aiutarsi l’un l’altra. Erano costrette, spesso, a ricorrere ad un’antica tecnica di trasporto, squisitamente femminile, oggi sorpassata e dimenticata: appoggiare sulla propria testa le pesanti bagnarole, appena protette da un “curuóglio”, un cuscinetto rotondo di stoffa grossa, usato per equilibrare il peso e attutire l’impatto duro del contenitore, e camminare, incredibilmente spedite e sicure, verso la propria casa. Riuscivano a mantenere il carico in perfetto equilibrio, con la superficie dell’acqua ferma, senza provocare schizzi o fuoruscita del prezioso liquido, dimostrando forza, abilità e collaudata perizia. Soltanto dopo il 1961, grazie alla scoperta del Moplen, nome commerciale di una materia plastica scoperta dal chimico italiano Giulio Natta negli anni cinquanta, per la quale vinse il Premio Nobel nel 1963, la Montesud rivoluzionò la vita delle casalinghe italiane, mettendo sul mercato leggerissimi contenitori di plastica che facilitarono la fatica delle donne.
Alcune di loro, più fortunate, avevano a disposizione un rubinetto per l’acqua nei cortili comuni, pertinenze delle loro case, tradizione urbanistica che caratterizzava l’intera rete residenziale dei vesuni. Faticavano molto di meno, anche perché disponevano, grazie a diritti acquisiti, di varie “comodità”: un lavatoio per lavare, il “gabinetto di decenza” o latrina (‘o luogo) per i propri bisogni, il forno, con sotto ‘o mandrillo (in napoletano mandrullo, covile per il maiale), la furnacella, piccola fornace per la cottura dei cibi, con gli accessori necessari, ‘e caurare e ‘o treppete (pentoloni e treppiedi), il mastello (‘a cupella) per il bucato (‘a culata). Otto erano le fontanelle, fino a tutti gli anni ’60, disseminate strategicamente nel quartiere popolare dei Vesuni: piazzale SS. Apostoli; vico Marunnella; Catafalco, angolo giardino Mazzocchi; Vico d’‘a cangiana; Via Nicola Litto, presso Palazzo del Tufo; largo cappella S. Giacomo; largo Picciocchi; ncopp’ â via nova (dall’altro lato della nazionale delle Puglie).
La fatica ed il disagio per il rifornimento dell’acqua nelle pubbliche vie erano alleggeriti dal piacere di stare insieme, di socializzare. Lo spazio intorno alla fontana era sempre pieno di gente; gruppi di donne, ragazzi e ragazze, lo animavano, in attesa del loro turno, chiacchierando e aiutandosi a vicenda. Alle fontane dei Vesuni si aggiungevano quelle degli altri quartieri: via Libertà, all’incrocio con via Malta; a via Tuoro; in piazza, sul marciapiedi lato est; al corso, inizio di via Roma. Nannina Brandolino abitava in un locale a piano terra, di fronte alla fontanella del giardino Mazzocchi e ricorda con nostalgia la nonna, Nunziata Masi,‘a caurarara, che le raccomandava di tenere sempre aperta la porta del basso: “La gente che aspetta in fila per prendere l’acqua può aver bisogno di entrare per ripararsi in caso di pioggia o freddo o di stanchezza”, le diceva convinta. E si emoziona al pensiero dell’insegnamento ricevuto: bellissima testimonianza del clima di solidarietà e di comprensione reciproca del rione “catafalco”. E quel clima non l’ha più ritrovato, da quando emigrò dal catafalco – Vesuni ‘e coppa – trasferendosi al largo Picciocchi – Vesuni ‘e sotto – e racconta di come abbia sofferto la differenza ambientale. Affermazione, questa, singolare in un mondo ormai globalizzato, dove un pensiero unico sembra schiacciare e appiattire le menti. La scoperta di persone che, legate nostalgicamente al loro piccolissimo quartiere, sono ancora in grado di apprezzare le diverse sensibilità di due “microcosmi”, è un segnale di speranza per il futuro. Il saldo legame che la univa alla piccola comunità del “catafalco”, non era soltanto di Nannina Brandolino, ma un sentimento comune, l’assioma sul quale si costruiva l’intera esistenza: tutti sapevano tutto di tutti, condividevano tutte le problematiche esistenziali comuni e, insieme, si facevano carico, anche per l’assenza dello stato, di funzioni civilissime e fondamentali, quali la solidarietà, l’assistenza, il rispetto, il controllo dell’ordine e della moralità pubblica. Oggi quel mondo non esiste più e, forse, è giusto così. Non vi può essere rimpianto per condizioni di vita spesso misere, per convinzioni che andavano superate, per una società dove le ingiustizie a danno delle classi sottomesse erano la regola. Resta, però, il rammarico per il mancato rispetto della memoria, per lo scempio perpetrato ai luoghi, per la fretta con cui si è voluto archiviare una civiltà, quella contadina, sostituendola con confusi valori, essendo mancato un processo culturale capace di formare ed “educare” i cittadini al “nuovo”. I Vesuni sono stati distrutti e snaturati da un falso “progresso”, che con l’obiettivo di realizzare un miglioramento della qualità della vita, ha in realtà operato una violenta trasformazione dell’originale architettura dei luoghi, con interventi approssimativi, esteticamente discutibili, in dispregio ai piani di recupero ed in assenza di ogni controllo: è stata un’operazione volgare, che pesa e peserà sulle coscienze di amministratori, tecnici, imprese e cittadini.
PS: alcune delle fontane citate in questo testo sono rimaste anche se gravemente danneggiate e altre sostituite con fontane a catino circolare e zampillo centrale. Personalmente ritengo che sarebbe doveroso, nel rispetto della memoria storica, recuperarne l’immagine originale.













