“A Voce d’ ‘o Tiempo”. La poesia come memoria e giustizia: dal pensiero di Parmenide al vernacolo napoletano, un viaggio tra versi, identità e libertà

A Voce d’ ‘o Tiempo. La poesia come memoria e giustizia: dal pensiero di Parmenide al vernacolo napoletano, un viaggio tra versi, identità e libertà

A Voce d’ ‘o Tiempo. La poesia come memoria e giustizia: dal pensiero di Parmenide al vernacolo napoletano, un viaggio tra versi, identità e libertàa cura del Prof. Nando Silvestri

Secondo alcuni autori del secolo scorso la poesia cessa di essere un mero genere letterario per trasformarsi in una “esperienza totale”. Del resto, la poesia e’ proprio lo strumento scelto da Parmenide di Elea per lasciare tracce e messaggi che sfidano i millenni su sottilissime lamine d’ oro.

Il poema ” Sulla Natura” del grande pensatore e legislatore cilentano non affrontava solo l’ Essere e l’ apparire ma conteneva principi e crismi tipici di una mente moderna e profondamente colta. Attraverso i versi Parmenide indicava la strada impervia del sacrificio necessario a conseguire il raggiungimento della verità e della unità della polis: concetti senza tempo racchiusi proprio nel proemio del poema succitato. Ed e’ così che miti e metafore si fondono in armonie quasi musicali per criticare la superficialità linguistica dei cartaginesi ed esaltare la guida di Dike (dea della giustizia) e Mnemosine (dea della memoria).

In ultima analisi Parmenide si avvale dei versi proprio per affermare che, senza memoria non ci può essere giustizia, un pensiero di enorme portata, oggi particolarmente sentito e condivisibile. Un grande poeta del novecento italiano scriveva: “io mi ricordo”. Era Dino Campana che, attraverso la poesia dei “Canti Orfici” sottolineava che la memoria non si riduce alla mera celebrazione della nostalgia, ma assurge a strategia di riconciliazione con l’universo quando decadenza e nichilismo spadroneggiano. Allora, che cosa e’ la poesia se non un codice comunicativo vivo, vibrante e perentorio, capace di penetrare la coscienza fino a legarsi indissolubilmente all’uomo? E’ uno degli aspetti più autentici che ha voluto chiarire il dottor Paolo Milone, noto psichiatra genovese e autore del libro intitolato “L’ Arte di Legare le Persone”. Nel libro lo specialista spiega cosa significa sentire il dolore degli altri e come impiegarlo per trasformarlo in qualcosa di proficuo. Nel percorso indicato dal medico genovese la poesia diventa un avamposto ideale per dire ciò che normalmente, in altri linguaggi non e’ possibile divulgare. In un tempo mediocre come quello che viviamo, dove la censura e’ l’ultimo stratagemma per affrancare governi e policy makers di tutti colori dalla crassa inettitudine che li caratterizza, la poesia schiude ancora opzioni e opportunità di pensiero libero e autonomo. Se i versi vengono poi espressi in lingua napoletana, particolarmente ricca di sedimenti culturali e valori espressivi senza limiti di spazio e di tempo, allora si comprende la necessità di avvicinarsi alla poesia stessa. La lingua napoletana varca le soglie dei già ricchi contenuti dialettali per impregnarsi di immagini, forme e profili appartenenti alla storia che va dall’ antica Grecia fino allo strapotere americani dei giorni nostri. Per questo, pensare, scrivere ed emozionarsi in napoletano e in dialetto, in generale, e’ più complesso e responsabilizzante che esprimersi in altre formule linguistiche canoniche. E’ questo in buona sostanza il monito della professoressa Patrizia Del Puente, ordinario di Glottologia e lingua dell’Università della Basilicata.

La professoressa Del Puente, che sostiene il valore morale e storico dei dialetti mediante istituti di ricerca internazionale, ha presieduto la giuria costituita da giornalisti, scrittori e professionisti del Terzo Settore come il Giudice tributario, dottoressa Milena Falabella (Associazione Culturale “A Castagna Ra Critica” di Lagonegro) che ha voluto premiare i miei modesti versi in Vernacolo napoletano ben cinque volte nelle diverse edizioni del Concorso Nazionale intitolato ai noti poeti lucani Antonio e Carlo Tortorella dal 2016 al 2022. A tal proposito, ho voluto recentemente dedicare due componimenti (“Doi rote” e ” Tutt’ Acqua”) alla fiera terra d’ Irpinia, talvolta calcata da menti immemori e distratte. Il declino di antichi mestieri come quello del rigattiere e “la rivolta dell’ acqua” creano, dunque, il pretesto per riflettere su alcuni aspetti vacui, osceni e caliginosi di una modernità sempre più alienante e contraddittoria. Ed e’ così che Natalino, dimenticato rigattiere di Avellino e Assunta Marra, la rivoltosa paladina irpina del bene comune più indispensabile, l’ acqua, diventano nei miei versi icone morali, e presidi di un’ umanità da riscattare a tutti i costi.

A volte l’umanità promana dalla natura e dal mondo animale, come accade nelle poesie “comme o viento”, “Sole janco” e Appriesso”. Altre volte sono le pietre dei borghi medievali e degli scorci più remoti delle città campane e lucane a rivendicare una dignità spesso decaduta e bistrattata da moderni surrogati, come avviene nelle poesie “E Prete”, “Na Terra Sola”, “E Tre Re”). In questi cammini interiori alla ricerca di se stessi e delle proprie origini capita di imbattersi in discriminazioni e paradossi del passato per nulla diversi da quelli attuali. Allora e’ meglio un brigante ucciso, come Ninco Nanco, che il rischio di dare voce ad un meridionale scomodo. Sconveniente come Giordano Bruno, ancora di salvezza e cuore pulsante di un pensiero ansioso di liberarsi dalle gabbie e dalle catene che imprigionano Carubina, un personaggio femminile rinascimentale ancora attuale e vicino alla vigile consapevolezza di Matilde Serao. Questi sono gli aspetti trattati nel breve monologo “Specchio”, concepito in due versioni linguistiche, italiana e napoletana.

Il mare che lambisce da secoli le coste meridionali sembra quasi aver ereditato questo spirito di ribellione mimato dai passi della danza sudamericana della Murga. Un impulso a tratti sedato che alberga silente nelle coscienze più inquiete e riflessive.”La Murga del Mare” e’ una poesia che attraversa il mito della “Spigolatrice di Sapri” e quello dell’ illusione risorgimentale per sdoganare l’unica liberazione più autentica possibile, quella delle onde. L’ eterno movimento delle acque, difatti, non smette mai di connettere la vita, in tutte le sue accezioni, alle dinamiche continue e sontuose del mare. Il mare conferisce quotidianamente all’uomo il senso della bellezza e della misura, sottolineando ininterrottamente la sua insanabile pochezza.

Tra i componimenti in Vernacolo napoletano, quello del pappagallino inseparabile Totò, intitolato “Suonno” narra in chiave fantastica (ma non troppo) il pentimento e il carattere illusorio del sogno di libertà di un volatile che, prima di allontanarsi, aveva stabilito con il suo amico umano un raro rapporto simbiotico ed emotivo. Quasi a rammentare, come disse Eduardo in una celebre commedia intitolata “Mia Famiglia” che “nessuno e’ veramente libero”.

I versi presentati fanno parte di un’opera letteraria e musicale diretta dal maestro pianista, compositore e arrangiatore Lino Pariota (ex tastierista di Pino Daniele). Napoletano verace e alacre scrittore di musica sinfonica, Lino Pariota ha apprezzato i miei versi con la stessa propensione che ha maturato collaborando con artisti del calibro di James Senese, Enzo Avitabile, Enzo Gragnaniello, Antonella Ruggero, Michael Bolton e Finizio. La scrittrice, cantante e attrice partenopea Debora Iannotta, che presenta l’opera suddetta intitolata “Din’t e parole” (quasi completata), ha definito “veri e propri fermo immagine emotivi i testi dei componimenti”. Ad impreziosire le recitazioni presentate in questa rubrica sono le preziose voci di lodevoli attori e attrici teatrali e cinematografici quali, Gerardo La Barbera (Teatro Aniene di Roma), Piera Russo (proveniente dalla scuola di Franca Rame- Dario Fo e vicina a Lello Arena) e Silvia Priori, fondatrice, scenografa regista e attrice del Teatro Blu di Varese.