Roma, 7 dicembre 1970: la notte in cui l’Italia sfiorò il colpo di Stato

Roma, 7 dicembre 1970: la notte in cui l’Italia sfiorò il colpo di Stato

Un’operazione eversiva minuziosamente preparata dall’estrema destra venne bloccata all’ultimo istante: ecco cosa accadde e perché il piano fallì

La notte del 7 dicembre 1970 l’Italia visse uno dei momenti più delicati della sua storia repubblicana. Mentre il Paese ignaro dormiva, uomini legati all’ultra destra e a settori delle forze armate avviarono un tentativo di colpo di Stato guidato dal principe Junio Valerio Borghese, ex comandante della Xª MAS e fondatore del Fronte Nazionale.
Quella notte, indicata con il nome in codice “Operazione Tora Tora”, avrebbe dovuto aprire la strada a un’insurrezione armata contro le istituzioni.

Il piano prevedeva l’occupazione dei punti strategici dello Stato: il ministero della Difesa, quello dell’Interno, la Rai, oltre alle centrali telefoniche e telegrafiche. Era persino contemplato il rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e l’uccisione del capo della Polizia Angelo Vicari.

A Roma, mentre un gruppo si era già impossessato delle armi custodite al Viminale, altri reparti erano pronti a muovere verso i loro obiettivi. Tra i partecipanti figuravano militanti neofascisti, esponenti dell’Esercito e membri del Corpo forestale. Una colonna di circa 200 uomini della Forestale si era già posizionata nei pressi del centro Rai di via Teulada, mentre al ministero della Difesa avevano preso posto ufficiali dell’Aeronautica.

Borghese, che coordinava tutto dalla sede del Fronte Nazionale, aveva già predisposto un proclama destinato a essere diffuso a golpe riuscito: un annuncio che proclamava la fine dell’ordine politico vigente e l’avvio di una nuova gestione “affidata alle forze armate”.

Ma quel messaggio non fu mai letto. Quando l’operazione sembrava a un passo dal compiersi, arrivò il contrordine. Tutto si fermò di colpo: i forestali tornarono alle loro caserme, gli uomini dell’Associazione paracadutisti rientrarono nella palestra, le armi prelevate non lasciarono il Viminale.
Le ragioni dello stop restarono a lungo offuscate. Borghese stesso, fuggito subito in Spagna per evitare l’arresto, attribuì l’interruzione alla mancata collaborazione di alcuni ufficiali che avrebbero dovuto aprire l’accesso al ministero della Difesa.

Secondo interpretazioni successive, invece, a bloccare tutto sarebbe stato un intervento di ambienti americani, preoccupati per l’instabilità che il golpe avrebbe potuto generare, oltre al ruolo dei servizi segreti italiani, che avrebbero ritenuto opportuno utilizzare il rischio insurrezionale come pressione politica in chiave anticomunista.

La notte del golpe passò sotto silenzio. Le istituzioni non divulgarono nulla e l’opinione pubblica ne venne a conoscenza soltanto il 17 marzo 1971, quando il quotidiano Paese Sera rivelò l’esistenza del piano.
Da quel momento partirono gli arresti: tra i primi furono fermati membri della destra extraparlamentare e figure coinvolte nell’organizzazione logistica. Il 19 marzo venne colpito da mandato di cattura anche Borghese, ormai al sicuro nella Spagna di Franco.

Il procedimento giudiziario conobbe anni di rinvii, riaperture e archiviazioni. Nel 1974 l’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti consegnò un rapporto dei servizi militari che alimentò nuove indagini. Il processo arrivò solo nel 1977 e si concluse nel 1984 con l’assoluzione di tutti gli imputati, sentenza poi confermata dalla Cassazione, che ridimensionò il complotto definendolo opera di “pochi anziani congiurati”.

Ricerche successive hanno però delineato un quadro molto diverso. Secondo storici e documenti emersi negli anni, il golpe Borghese fu un piano eversivo reale, legato alla stagione della strategia della tensione. Parteciparono non solo gruppi neofascisti, ma anche figure di primo piano dell’Esercito e dei servizi segreti.
Nei decenni seguenti, inchieste e testimonianze hanno inoltre rivelato legami con Cosa Nostra, la ’Ndrangheta e con la loggia P2 di Licio Gelli.

Ciò che accadde la notte del 7 dicembre 1970, dunque, non fu un’azione improvvisata né un semplice errore di valutazione.
Fu uno dei più gravi tentativi di sovvertire la democrazia italiana nel dopoguerra, un episodio rimasto a lungo nell’ombra e che ancora oggi rappresenta uno snodo fondamentale per comprendere il clima politico di quegli anni.