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di Francesco Piccolo
C’erano difensori che non si limitavano a difendere. Uomini che sapevano trasformare il campo in una corsa liberatoria, che facevano della fascia laterale una pista di lancio e del pallone un proiettile scagliato con la forza di un sogno. Erano terzini che non conoscevano paura: pronti a strappare il possesso all’avversario con la grinta dei guerrieri e, un attimo dopo, a spingersi oltre la metà campo con la potenza di un attaccante.
Nel Mandamento, quando si parlava di quel calcio fatto di cuore e sacrificio, di fiato corto e polmoni infiniti, il nome che veniva pronunciato era sempre lo stesso: Giovanni Sgambati.
Classe 1973, un metro e ottanta di pura energia, terzino sinistro di quelli che non si dimenticano. Esplosivo, instancabile, capace di incendiare la partita con una corsa lungo la linea bianca o di piegare le difese avversarie con una punizione dal mancino secco.
Non era solo un calciatore: era il simbolo di un modo di intendere il pallone che oggi sembra quasi scomparso. Quello in cui la maglia era un’estensione della pelle e il campo un’arena da vivere fino all’ultimo respiro. Ogni contrasto era una promessa mantenuta ai compagni, ogni corsa un dono al pubblico che lo seguiva con gli occhi, trattenendo il fiato.
Nel calcio mandamentale, il suo nome non è rimasto inciso solo nelle cronache delle partite, ma nella memoria di chi ha visto, almeno una volta, quel mancino partire come una freccia e trasformare il silenzio dell’attesa nel boato di un’intera comunità.
Gli inizi: Baiano e Avellino
Ogni storia calcistica che lascia il segno comincia in un campetto di provincia, tra erba alta e linee sbiadite, dove il pallone corre più veloce dei sogni dei ragazzi. È lì che Giovanni Sgambati ha iniziato a scrivere la sua avventura.
Cresciuto nella scuola calcio del Baiano, imparò presto che il calcio non è solo tecnica, ma cuore, sacrificio e fratellanza. A guidarlo in quei primi passi fu Biagio Peluso, maestro severo e appassionato, capace di insegnare che dietro ogni passaggio c’è disciplina e dietro ogni corsa c’è un valore.
Il viaggio continuò alla Mirgia Irpinia, con il presidente Gino Corrado e il ds Andrea Ruggiero, che gli diedero fiducia e responsabilità. Poi arrivò il sogno più grande: l’U.S. Avellino. Indossare la maglia biancoverde, in quegli anni, significava toccare con mano l’aspirazione di un’intera generazione. Giovanni ritrovò mister Peluso e visse stagioni indimenticabili tra gli Esordienti e i Giovanissimi, respirando il fascino e il peso di un settore giovanile che per molti era un traguardo irraggiungibile.
Terminata la parentesi avellinese, tornò alla Mirgia Irpinia, trasformando quell’esperienza in benzina per il futuro. Lì continuò a forgiare il suo carattere e a rafforzare le qualità che presto lo avrebbero spinto oltre i confini della sua terra.
Era solo l’inizio, ma già si intravedeva la stoffa di chi non gioca per caso: la corsa instancabile, il mancino potente, lo sguardo di chi insegue un sogno con la fame di chi non vuole lasciarselo scappare.
Il Carotenuto: la consacrazione
Il destino, a volte, passa da una chiamata che non puoi rifiutare. Per Giovanni Sgambati quella svolta aveva i colori rossoneri dell’U.S.G. Carotenuto, fortemente voluto dal dottor Pietro Bianco, con il presidente Angelo Sanseverino e il direttore sportivo Angelo Monteforte. Era il salto che aspettava: il palcoscenico dove mettere in mostra ciò che aveva imparato nei campi di provincia e nelle giovanili.
Con la maglia rossonera, Giovanni non fu solo un calciatore: diventò simbolo di spinta, sacrificio e appartenenza. Le prime due stagioni furono un’altalena di emozioni: grandi prestazioni, pubblico in festa, ma sempre un passo indietro al traguardo. Prima fu l’Atripalda a soffiare il titolo, poi il Cervinara. Due secondi posti che avrebbero piegato la volontà di molti, ma non quella di un terzino che aveva fatto della resistenza la sua arma più grande.
Al terzo anno arrivò finalmente il trionfo: il Carotenuto vinse il campionato e Giovanni fu protagonista, correndo senza tregua, difendendo come un muro e ripartendo come un fiume in piena. Era la consacrazione: il sogno di bambino diventava realtà davanti agli occhi di un’intera comunità.
Restò altri due anni in Eccellenza, fino al giorno in cui il destino gli tese la sua trappola più dura: un grave infortunio al ginocchio. Un anno e mezzo lontano dai campi, sospeso tra dolore e nostalgia. Molti avrebbero mollato, ma non Giovanni.
Quando tornò, lo fece ancora una volta con la maglia rossonera. E sulla panchina c’era il suo ex capitano, Pasquale Vasta, compagno di mille battaglie, ora guida tecnica. Un cerchio che si chiudeva, nel segno della fedeltà e dell’amore per quei colori che non lo avevano mai lasciato.
Baiano, Cicciano e ancora Carotenuto
Dopo la grande avventura rossonera, per Giovanni si aprì un nuovo capitolo. Il richiamo del Baiano in Eccellenza sembrava un ritorno alle radici, ma quella parentesi fu breve, quasi un passaggio necessario prima di scrivere altre pagine di calcio e di vita.
Il destino lo portò quindi al Cicciano, in Prima Categoria. Qui, sotto la guida di Giovanni Renna, Giovanni ritrovò la gioia pura del gioco e la fame di vincere. La promozione arrivò subito, spinta dalla sua grinta e dal suo esempio, dentro e fuori dal campo.
E poi, come in un cerchio che non vuole chiudersi mai, tornò ancora una volta al Carotenuto. Non più da terzino, ma reinventato difensore centrale, con intelligenza tattica e carattere da leader, guidato in panchina dal duo Peluso-Rega.
Gli ultimi anni: Sirignano e Sperone
Quando la carriera sembrava ormai alle ultime pagine, Giovanni trovò ancora la forza di inseguire il pallone. Al Sirignano, allenato ancora da Pasquale Vasta, continuò a correre come se il tempo non lo avesse mai toccato.
Poi arrivò l’ASD Sperone. Qui il cerchio si chiuse davvero, ma con un colpo di scena degno delle migliori storie di sport: a 48 anni, con l’entusiasmo intatto di un ragazzo, Giovanni conquistò il campionato di Terza Categoria. Un trionfo che non parlava di classifiche, ma di passione e fedeltà incrollabile a quel gioco che lo aveva accompagnato fin da bambino.
Dal campo alla panchina
Per Giovanni Sgambati il fischio finale non è mai davvero arrivato. Quando ha appeso le scarpette al chiodo, non ha voltato le spalle al calcio: ha solo cambiato prospettiva.
Ha iniziato con la Peluso Academy, poi è approdato a Sarno, fino a ritrovare oggi la sua casa naturale, nel settore giovanile dell’A.C. Baiano. Qui trasmette ai ragazzi la stessa grinta, la stessa lealtà e lo stesso amore che lo hanno reso un simbolo del calcio mandamentale.
Caratteristiche tecniche
Giovanni Sgambati era un terzino sinistro moderno, quando ancora nessuno parlava di terzini “moderni”. Uomo di corsa, e che corsa: infinita, poderosa, capace di trasformare la fascia in una linea di spinta continua.
Il suo mancino era un’arma antica e crudele, capace di piegare barriere e gelare portieri. Da fermo era specialista nei calci piazzati, in movimento un martello instancabile.
Ma la vera forza di Giovanni non stava solo nei muscoli o nei piedi: stava nella testa e nel cuore. Compagno leale, uomo di squadra, non cercava gloria personale. Si gettava nelle partite come in una battaglia, sempre con lo sguardo rivolto al collettivo. La fascia sinistra, con lui, era una certezza difensiva e una via d’attacco coraggiosa.
Di Giovanni Sgambati si ricorda…
• il Carotenuto delle grandi battaglie: due volte secondo, poi finalmente campione, con la promozione conquistata come un assalto vinto dopo lunghe attese;
• il compagno leale, quello che tutti volevano accanto nello spogliatoio e in campo, perché con lui non eri mai solo;
• il guerriero che a 48 anni correva ancora come un ragazzo e che, con il suo mancino intatto, sapeva accendere la partita come ai tempi migliori.
Io sono Giovanni Sgambati.
La mia corsa non si è mai fermata.











