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C’è stato un tempo in cui chi si dedicava allo sport con passione e disciplina veniva visto con sospetto o sufficienza. L’idea dominante era che lo sport fosse poco più che un passatempo, una perdita di tempo per chi non aveva altre ambizioni. Salvo rare eccezioni – i grandi campioni celebrati – l’attività sportiva non godeva di alcuna considerazione nella gerarchia sociale. Eppure oggi, a distanza di pochi decenni, lo sport è diventato uno dei pilastri più potenti dell’economia e della cultura contemporanea.
La trasformazione è evidente. Oggi lo sport muove interi settori produttivi: abbigliamento tecnico, impiantistica, turismo sportivo, ristorazione, logistica e ospitalità ruotano attorno a eventi grandi e piccoli, dal torneo locale alle Olimpiadi. L’impatto sul PIL nazionale è ormai riconosciuto, così come il ruolo chiave dello sport nella promozione della salute, del benessere psicofisico e dell’inclusione sociale.
Anche la letteratura sportiva, un tempo trascurata, ha trovato legittimità accademica e divulgativa: giornali, riviste scientifiche e manuali metodologici hanno consentito la diffusione di pratiche corrette e sicure, rivolte a tutte le fasce d’età e a tutti gli obiettivi, dal benessere alla prestazione. Si è finalmente compreso che l’insegnamento dello sport deve fondarsi su conoscenze precise, aggiornate, rispettose dello sviluppo individuale.
Ma questa evoluzione positiva, che ha restituito dignità e centralità alla cultura sportiva, si porta dietro nuove e gravi contraddizioni. È il prezzo di una “crisi di crescita” che il mondo dello sport sta vivendo.
I lati oscuri della crescita
Uno dei fenomeni più preoccupanti è quello della specializzazione precoce, definita da alcuni esperti come un vero e proprio “doping di secondo livello“. Bambini e adolescenti vengono indirizzati troppo presto verso una disciplina unica, caricati di aspettative e stress incompatibili con la loro età, con conseguenze spesso irreversibili sul piano fisico e psicologico.
A questa deriva si aggiunge una crisi di competenze nella formazione degli istruttori e tecnici sportivi: troppa improvvisazione, poca preparazione scientifica, e una scarsità di percorsi strutturati per garantire una qualità diffusa dell’insegnamento.
Non meno grave è la questione economica: i costi per praticare sport sono cresciuti in modo esponenziale, rendendo l’accesso difficile per molte famiglie, soprattutto quelle numerose. Il rischio è che lo sport, da diritto costituzionale, torni a essere privilegio per pochi.
Infine, c’è una crescente e preoccupante tendenza a strumentalizzare lo sport per fini d’immagine, piuttosto che per costruire solide politiche pubbliche: impianti fatiscenti, clientelismo nei finanziamenti alle società, assenza di programmazione scolastica strutturata. Si pensa più a comparire in prima fila a eventi e premiazioni, che a investire in infrastrutture, formazione e accessibilità.
Riscoprire la politica sportiva
Gli straordinari risultati sportivi italiani degli ultimi anni – dalle medaglie olimpiche al successo di atleti in varie discipline – rischiano di farci dimenticare che dietro ogni traguardo ci deve essere una visione politica, fatta di investimenti, inclusione, formazione e trasparenza. Invece, questa visione sembra oggi relegata ai margini, sacrificata sull’altare della visibilità e dell’opportunismo.
Ecco perché è urgente tornare a una politica sportiva centrata sui valori educativi, sull’equità, sulla crescita umana prima che competitiva. Non basta celebrare i successi: serve costruire il terreno fertile da cui essi possano continuare a nascere. Solo così lo sport potrà davvero restare, per tutti, una scuola di vita e di civiltà.
