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COPIAPÓ (CILE) – Il 5 agosto 2010, una normale giornata di lavoro nella miniera di San José, nel deserto di Atacama, si trasformò in un incubo: 33 minatori rimasero intrappolati sotto terra, a circa 700 metri di profondità, a causa di un violento crollo della galleria principale.
Le prime ore furono di angoscia e incertezza. I soccorsi, ostacolati dalla precarietà della struttura e dal rischio di nuovi cedimenti, non riuscivano a stabilire se vi fossero sopravvissuti. Per 17 lunghissimi giorni, il mondo temette il peggio.
Poi, il miracolo: il 22 agosto, una sonda raggiunse una cavità dove i minatori avevano trovato rifugio. Appeso alla trivella, un foglietto scritto a mano cambiò tutto:
“Estamos bien en el refugio los 33”
(“Stiamo bene nel rifugio, i 33”).
Da quel momento, il Cile e il mondo intero seguirono con il fiato sospeso l’imponente operazione di salvataggio, coordinata da ingegneri, medici e tecnici specializzati provenienti da diversi Paesi. Furono installati sistemi di comunicazione, forniti cibo, acqua e medicinali, mentre si lavorava giorno e notte per scavare un tunnel verticale abbastanza largo da riportarli in superficie.
Finalmente, nella notte tra il 12 e il 13 ottobre 2010, uno dopo l’altro, i 33 minatori furono estratti vivi, dopo 69 giorni sotto terra, in una delle operazioni di soccorso più straordinarie e seguite della storia.
L’intero Paese esultò. Il presidente cileno Sebastián Piñera li accolse all’uscita del pozzo, mentre le immagini facevano il giro del mondo. L’impresa fu celebrata come simbolo di speranza, resistenza e unità umana.
Oggi, a distanza di anni, quella vicenda rimane una pagina indelebile di coraggio e resilienza, che continua a ispirare documentari, film e libri. Il nome “San José” non è più solo quello di una miniera: è diventato un emblema universale della forza dello spirito umano.
