
![]()
LONGARONE (BL) – La sera del 9 ottobre 1963, alle 22:39, una frana gigantesca si staccò dal Monte Toc e precipitò nel bacino artificiale del Vajont, provocando un’onda di proporzioni apocalittiche che travolse in pochi secondi i paesi a valle.
In meno di cinque minuti, Longarone, Castellavazzo, Erto e Casso e altre località del bellunese furono rase al suolo. Morirono oltre 1.900 persone, tra cui intere famiglie, bambini, donne e anziani.
Era una sera tranquilla, ma bastò il boato della montagna per trasformare la valle in un inferno. Una massa di 260 milioni di metri cubi di roccia si staccò dal fianco del Monte Toc e si riversò nel lago artificiale creato dalla diga del Vajont, gestita dalla Società Adriatica di Elettricità (SADE).
L’impatto fece sollevare un’onda d’acqua alta oltre 200 metri che scavalcò la diga e si abbatté a valle con una forza devastante.
Una tragedia annunciata
Ciò che rende ancora più drammatica questa catastrofe è che non fu un evento imprevedibile.
Già da tempo gli abitanti di Erto e Casso avevano segnalato frane, scricchiolii e crepe sulle montagne circostanti, mentre i tecnici avevano registrato movimenti del terreno sempre più significativi.
Gli esperti sapevano che il fianco del Monte Toc era instabile, ma la decisione di proseguire con l’invaso – riducendo solo gradualmente il livello dell’acqua – si rivelò fatale.
Nei mesi precedenti alla tragedia, alcune frane di minore entità avevano già allertato i tecnici. Tuttavia, la convinzione che la diga potesse resistere a qualunque sollecitazione portò a sottovalutare il rischio.
E in effetti, la diga resistette: il muro di cemento alto 261 metri (uno dei più alti al mondo all’epoca) rimase quasi intatto. Fu l’acqua a distruggere tutto.
La furia dell’acqua
L’onda, alta quanto un grattacielo, superò la diga e si riversò nella valle del Piave.
Longarone, un paese di circa 1.200 abitanti, venne spazzato via in 7 secondi. Le luci si spensero, il terreno tremò e un’onda di fango, detriti e alberi cancellò tutto.
I soccorritori, giunti nelle ore successive, trovarono solo macerie e silenzio. Dei paesi sulla sponda sinistra del Vajont restarono soltanto frammenti di muri e travi.
Le responsabilità e i processi
Il disastro del Vajont non fu solo un evento naturale: fu una tragedia umana e politica.
Le indagini successive portarono alla luce gravi omissioni e negligenze.
I dirigenti della SADE e alcuni funzionari pubblici furono processati per omicidio colposo plurimo, ma le pene inflitte risultarono miti rispetto alla gravità dell’accaduto.
Nel 1971, la Corte d’Appello de L’Aquila condannò Gioacchino Volpi di Misurata, presidente della SADE, e Carlo Semenza, ingegnere capo del progetto (quest’ultimo nel frattempo deceduto), riconoscendo che la tragedia fu ampiamente prevedibile.
Nel 1977 arrivò anche la condanna definitiva per alcuni dirigenti dell’Enel (subentrata alla SADE dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica).
La memoria del Vajont
Oggi il Vajont è simbolo di catastrofe evitabile e di responsabilità negata.
La diga, ancora in piedi, domina silenziosa la valle come un monumento alla memoria e al monito.
Ogni anno, il 9 ottobre, i sopravvissuti e i familiari delle vittime si ritrovano a Longarone per ricordare.
Dal 2001 il sito del Vajont è riconosciuto come Luogo della Memoria e fa parte del percorso del Museo Diffuso del Vajont, che custodisce testimonianze, fotografie e oggetti ritrovati tra le macerie.
Una lezione per sempre
Il disastro del Vajont resta una delle più grandi tragedie civili della storia italiana del Novecento.
Un evento che dimostrò come l’arroganza del progresso, unita alla sottovalutazione dei rischi e all’assenza di controlli, possa trasformarsi in strage.
Parole scolpite nel tempo da Tina Merlin, la giornalista che per prima denunciò i pericoli del Vajont, suonano ancora come un ammonimento:
“Non fu la natura a tradire l’uomo, ma l’uomo a tradire la natura.”
