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Aveva solo 27 anni l’agente Michele Gaglione, nato ad Avella (Avellino), quando la criminalità organizzata ne ha spezzato la giovane vita. Era il 7 agosto 1992, una calda giornata d’estate come tante, e Michele stava rientrando a casa dopo il servizio presso il Centro Penitenziario di Napoli Secondigliano, dove prestava con serietà e dedizione il suo lavoro di agente della Polizia Penitenziaria.
Ma ad attenderlo non c’era il conforto della sua casa, bensì la mano armata della mafia. Un agguato vigliacco, premeditato, eseguito con fredda determinazione. Michele fu assassinato brutalmente a bordo della sua autovettura. Un’esecuzione che aveva un chiaro significato: colpire lo Stato nei suoi uomini, in chi ogni giorno, anche nel silenzio di un carcere, fa rispettare la legge.
La sua uccisione fu un gesto simbolico e intimidatorio, un tentativo disperato della criminalità organizzata di piegare le istituzioni, in particolare quelle impegnate nell’applicazione del regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41-bis O.P., rivolto a detenuti appartenenti ad associazioni mafiose. Michele era diventato, suo malgrado, un bersaglio proprio perché rappresentava la fermezza dello Stato.
Il dovere e il sacrificio
L’agente Gaglione non era un eroe per scelta, ma per destino. Un giovane come tanti, con sogni, valori, affetti. Il suo coraggio non stava nei gesti plateali, ma nel quotidiano rispetto del dovere, nella disciplina silenziosa di chi sa che la sicurezza del Paese si costruisce anche nei luoghi più difficili, come le carceri, dove il crimine tenta ogni giorno di riaffermare il proprio potere.
Michele ha pagato con la vita l’appartenenza a un’Istituzione che non si piega e non si arrende. Il suo sacrificio è il simbolo di una generazione di servitori dello Stato che, negli anni più bui della lotta alla mafia, ha affrontato senza esitazione il rischio della morte pur di difendere i valori di legalità e giustizia.
Il ricordo che resta, l’impegno che continua
A 33 anni da quel tragico giorno, il nome di Michele Gaglione è inciso nella memoria delle Istituzioni, della Polizia Penitenziaria, dei suoi colleghi e della sua comunità. Il suo ricordo viene custodito nelle cerimonie, nei monumenti, nelle scuole, ma soprattutto nei cuori di chi ha scelto di continuare a servire lo Stato seguendo l’esempio del suo sacrificio.
Ricordarlo non è solo un atto dovuto, ma un impegno morale: significa rinnovare ogni giorno la lotta per una società più giusta, più sicura, più libera.
