L’ARTE DEL KINTSUGI COME MAGISTRA VITAE

L’ARTE DEL KINTSUGI COME MAGISTRA VITAE

di Sebastiano Gaglione

Siamo sinceri con noi stessi: viviamo in un mondo in cui la parola “consumismo” è all’ordine del giorno. Ci stanchiamo facilmente del vecchio, per far spazio al nuovo.
A dirla tutta, a volte siamo persino alla ricerca di inutili giustificazioni da dare a noi stessi solo per avere il “movente” del cambiamento.
Questo succede, ad esempio, quando la spesa necessaria per riparare il vecchio, è talmente cospicua da non giustificare tale riparazione e quindi si verifica l’ennesima scusante per passare al nuovo.

Nella cultura orientale, invece, esiste l’antica e raffinata tecnica di restauro del Kintsugi, che consiste nel riparare oggetti rotti come tazze, vasi o piatti, andando a saldare insieme i suoi pezzi, impiegando solitamente una mistura di lacca e oro in polvere.
Tuttavia, il Kintsugi non è unicamente mera arte, ma è molto di più.
La filosofia che si cela dietro quest’antica tecnica di restauro, risalente al XV secolo circa, è strettamente interconnessa con il concetto di “resilienza” che, in termini psicologici, consiste nella capacità di trarre benefici da eventi traumatici accaduti nella propria vita, “rimettendo insieme i pezzi”, ergo ricostruendo se stessi.

Da notare, come l’utilizzo di un materiale prezioso come l’oro, non si limiti affatto ad esser un puro elemento estetico mirato ad abbellire l’oggetto; quest’arte, in realtà, fa molto di più.

L’arte del Kintsugi abbraccia le crepe dell’oggetto, createsi in seguito all’urto e le fa sue con il fine ultimo di donargli un nuovo e più elevato valore, impreziosendolo ancor più di quando fosse appena acquistato. Se ancora non si fosse capito, le crepe del vaso rotto sono, a tutti gli effetti, una similitudine delle cicatrici della vita.
Ebbene, quante volte preferiamo chiudere definitivamente un rapporto, piuttosto che ricucirlo?
Quante volte non riusciamo a ripartire da noi stessi e a ritrovarci in seguito ad un dolore causato da un evento traumatico che abbiamo subito?
L’arte del kintsugi, in questo caso, è una vera e propria magistra vitae.
Essa insegna a rialzarsi, a rinascere. Di nuova vita. Perché nessuno può colpire duro come fa la vita e per quanto dolorose possano essere le ferite che ci infligge, le cicatrici che restano, rappresentano pur sempre il segno indelebile di una vita vissuta appieno.
D’altronde dal meraviglioso viaggio dell’esistenza non si può di certo pensare di uscirne illesi.
Una vita intensa, così come intensi sono i rapporti che andiamo a vivere.
Le cicatrici ci rendono umani e devono essere motivo di vanto, non di imbarazzo.
L’arte del Kintsugi rinnega la superficialità. Difatti, la vera profondità consiste nell’abbracciare la “caduta” senza doversi vergognare delle proprie ferite e nel saper valorizzare anche gli eventi atroci. Il kintsugi va controcorrente e trae positività dalla negatività.
In definitiva, solo quando avremo compreso l’arte del Kintsugi, allora avremo davvero colto e appreso un’altra arte, ancor più importante: l’arte della vita.