BAIANO. All’ “Incontro” si è andati alla riscoperta di Camillo Renzi e dei campi d’internamento di Monteforte Irpino, Solofra e Ariano negli anni del secondo conflitto mondiale

BAIANO. All Incontro si è andati alla riscoperta di Camillo Renzi e dei campi d’internamento di Monteforte Irpino, Solofra e Ariano negli anni del secondo conflitto mondiale

L’antitesi dell’oblio e del silenzio, i cui velari sembrano annullare il passato, si ritrova nella trama della memoria, che fruga nelle menti, interpella le coscienze, focalizza il senso del tempo, nel crogiuolo dei travagli sociali e delle istanze politiche, da cui è stato abitato, facendo parlare i testimoni che ne sono stati partecipi direttamente o ne hanno conoscenza per ricordi familiari e generazionali, vincendone le riluttanze e le riservatezze, dettate da ragioni di convenienza e opportunismo appunto. Ed è la memoria, che, a distanza di anni, spesso di secoli, analizza, con monitoraggi incrociati, atti e documenti, per vagliare l’affidabilità e la credibilità degli autori e dei ruoli esercitati, rapportandone i contenuti all’arco più ampio possibile di angolature visuali, al netto di ogni schema interpretativo pre-concetto e pre-costituito. E’ un lavorio, quello della memoria, che di frequente smantella “verità” considerate storiche, ma che tali non sono affatto.

BAIANO. All Incontro si è andati alla riscoperta di Camillo Renzi e dei campi d’internamento di Monteforte Irpino, Solofra e Ariano negli anni del secondo conflitto mondialeSono – questi- gli assi portanti dell’itinerario, che può far predisporre al viaggio Dentro la storia, in grado di essere significativo. Un viaggio mentale sul territorio nostrano, compiuto alla luce della conversazione-lezione, sviluppata dalla professoressa Gaetana Aufiero, nel Circolo socio-culturale de L’Incontro; viaggio, le cui stazioni di fattispecie hanno polarizzato la conoscenza della genesi delle persecuzioni e dello sterminio, cui furono sottoposti gli ebrei, gli appartenenti alle minoranze etniche e gli avversari politici, nel corso dei terribili anni del secondo conflitto mondiale; un programma di annientamento, che rientrava nel più vasto disegno del nazional-socialismo della Germania hitleriana, funzionale all’assoggettamento politico ed economico dell’Europa, di cui era fondamentale tassello il mito del primato della razza ariana.

E va detto che i fattori polarizzanti del viaggio nella Shoah soltanto dagli anni ’80 del secolo scorso e fino ai nostri giorni si sono venuti configurando con nettezza di profili, per alimentare un discorso pubblico e di riflessione critica di dovuta e articolata conoscenza, al di là dei ristretti ambiti di studiosi e storici di professione; un’operazione, con cui si sono sollevate e squarciate in via definitiva quelle compatte cortine del silenzio, che, a circa quaranta anni dall’abominio dei lager e dei campi di sterminio, ancora erano mantenute e conservate, come per mascherare e coprire quelle “ragioni di Statodi vari Paesi, che ne erano state quasi l’avallo per calcolo politico o per passiva inerzia.

Erano le “ragioni di Stato”, i cui addentellati, a loro volta, si erano venuti integrando, con maggiore o minore portata di supporto, nella strutturazione del nuovo sistema geo-politico, costituitosi con i trattati di pace del’45, all’insegna del bi-polarismo UsaUrss. Né va dimenticato che l’istituzione del Giorno della memoria, da celebrare il 27 gennaio ogni anno, quale ricorrenza di valore internazionale, per rendere onore alle vittime della Shoah e del nazionalsocialismo fu deliberata a Nuova York il primo novembre del 2005 dall’Assemblea plenaria delle Nazioni Unite. Il provvedimento fu assunto in coincidenza con le iniziative evocative del sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di stermino, disseminati nei territori europei, che la Germania nazista aveva occupato nel corso del conflitto. Un atto doveroso, reso ufficiale quando il sistema geo-politico, incentrato sul bi-polarismo UsaUrss, s’era già frantumato, con il metaforico crollo del Muro di Berlino nel 1989, dando spazio al pluri-polarismo geo-politico della contemporaneità, rispetto alle quali le ideologie, affermatesi nell’800 e nel ‘900 sono… archeologia, anche se relativamente utili a fornire elementi di orientamento nei processi sociali in corso.

CAMILLO RENZI: BIOGRAFIA DI UN UOMO GIUSTO E DI UN LEALE SERVITORE DELLO STATO

La prima stazione del viaggio Dentro la storia del territorio nostrano, per i riflessi della Shoah, in virtù della preziosa e informata “guida” di Gaetana Aufiero, è quella che pone in rassegna i profili di riscoperta di Camillo Renzi, il commissario della Pubblica sicurezza, vissuto a Mugnano del Cardinale – dov’era nato il primo aprile del 1903- fino al completamento della formazione culturale e professionale, con il conseguimento, appena ventiduenne, della laurea in Giurisprudenza nell’Ateneo Federico II, a Napoli.

   Una vicenda biografica, quella di Renzi– era il primo di sette figli- che nell’amministrazione statale della Pubblica sicurezza inizia nel 1926, con l’assegnazione al servizio di tutela dei Principi della Casa regnante, assumendo nel 1930 la responsabilità diretta del servizio di sicurezza della principessa Maria  Josè  di Savoia, donna di idee liberali, poco ligia al cerimoniale e ai conformismi di Corte, senza disdegnare la frequentazione degli ambienti refrattari al regime mussoliniano e alle sue marcate restrizioni sul versante dei diritti civili, mentre l’esercizio libero dei diritti politici era stato soppresso con le leggi “fascistissime” del 1926. Una funzione pubblica- e un rapporto di quotidianità- che, verosimilmente, concorrono gradualmente a plasmare, in Camillo Renzi, quella visione di apertura e di sensibilità verso le sempre più gravi sofferenze, che affliggono il popolo sia per la guerra, sia per la durezza del regime.

   E’ la visione, che, nel 1943, quando si trova in Valle d’Aosta, al seguito di Maria Josè, lo fa porre in stretto contatto con il Comitato di Resistenza partigiana del territorio, a cui dà sostegno in tutte le forme e modalità possibili, in virtù delle funzioni che svolge in Questura; un sostegno, che, per Renzi, diventa sempre più rischioso per il coraggio che richiede, al limite della temerarietà, dopo l’8 settembre dello stesso anno, quando viene sottoscritto l’Armistizio, con l’Italia che resta divisa in due, tra il Regno del Sud – con il governo a reggenza italiana, sotto la tutela delle truppe inglesi ed americane, affidato al maresciallo Badoglio e durato fino al ’44, quando le stesse truppe liberarono Roma dall’occupazione tedesca, restituendola alla dimensione di capitale d’Italia, con l’insediamento del governo di Ivanoe Bonomi, i cui componenti si ispiravano alle idealità liberal-democratiche, socialiste e monarchiche, le autentiche matrici della Resistenza e della Liberazione- e la Repubblica sociale italiana– con la sede di governo a Salò– che sotto l’ala protettiva della Germania hitleriana era stata proclamata da Mussolini nelle regioni del Nord, diventate teatro della tremenda guerra civile, che oppose i Gruppi d’azione partigiana del Comitato di liberazione nazionale, alle milizie fasciste, a cui fanno da sponda le truppe naziste.

   E per queste ultime- va evidenziato- aveva rilevanza fondamentale, con assoluta valenza strategica, il controllo dei territori del Nord, dov’erano particolarmente concentrati i presidi dell’industria bellica tedesca, segnatamente nell’area portuale di Genova e nella Valle di Cogne; sono i contesti geografici, che da soli rendono chiara l’importanza logistica e della centralità strategica della Valle d’Aosta, in ragione anche delle vie di collegamento da cui era attraversata; importanza, per la quale è sottoposta alla serrata attività di vigilanza e controllo delle truppe naziste e delle squadre delle SS, con frequenti rastrellamenti e operazioni repressive verso partigiani, ebrei e sospettati antagonisti politici, a cui fanno seguito dure detenzioni nelle carceri Le Nuove, a Torino, e in quelle di Bolzano, che fanno anche da transito verso le deportazioni nei campi di sterminio.

 MARIA JOSE’ IN ESILIO IN SVIZZERA

E’ un quadro, la cui complessità si accentua il 9 settembre del 1943, quando Maria Josè, in esilio volontario raggiunge la Svizzera, lasciando il Castello di Sarre, che l’ospitava, e la Valle d’Aosta, le cui popolazioni rivendicavano da lungo tempo l’Autonomia di governo secondo il modello dello Stato federale; aspirazioni, che saranno riconosciute nel ’48 con l’ordinamento costituzionale dello Stato italiano, all’insegna del bi-linguismo italo-francese. Ma va anche rilevato che la testa d’ariete delle rivendicazioni radicaleggianti dello stesso Comitato di Resistenza era costituita dalla volontà di Secessione della Valle d’Aosta dall’Italia, per l’unificazione politica con la Francia.

   Come che sia, quella del dopo8settembre è una fase travagliata e di scelte di campo difficili, per quanti operano nell’amministrazione dello Stato, al di qua e al di là del Garigliano, specie nei livelli dirigenziali e per l’esercizio di particolari funzioni; fase, che si era venuta già profilando sulla scia degli effetti prodottisi dopo il 25 luglio del ’43, allorquando si era dissolta la diarchia ReDuce, ovvero MonarchiaFascismo, con cui si era configurata l’azione delle istituzioni dello Stato per circa venti anni, sotto l’incalzare degli eventi bellici, mentre la tenuta politica della classe dirigente del Fascismo si era ormai decomposta e ridotta ai minimi termini. Camillo Renzi, che non ha seguito in terra svizzera la principessa Maria Josè, resta in servizio nella Questura d’Aosta, svolgendo, però, funzioni di grado inferiore alle sue competenze, fino a limitarsi soltanto alla dattilo scrittura di rapporti e atti di brogliaccio, come dire minutaglia di “routine” burocratica. E c’è da comprendere se sia stata una scelta fatta dallo stesso Renzi o imposta dai “vertici” della Questura o ministeriali per i sospetti dell’attiva ”intelligenza” con il Comitato di Resistenza valdostano, afferente al Comitato di liberazione nazionale, sia per le attività anti-fasciste e anti-naziste, sia per gli aiuti agli ebrei e ai perseguitati politici; sospetti, che cominciavano ad addensarsi sulla sua persona, senza dimenticare che Renzi non aveva aderito alla mussoliniana Repubblica sociale, tutelata dalle truppe naziste e dalle SS, restando fedele al giuramento prestato nel 1931 sia verso il Re che verso lo Stato, la cui struttura aveva conservato l’originario impianto dello Statuto albertino, recepito dallo Stato unitario del Regno d’Italia, proclamato nel 1861.

RENZI AD AOSTA DOPO L’8 SETTEMBRE DEL ’43: PERCHE’?

Il nodo di domanda sulle ragioni, per le quali Renzi abbia proseguito a svolgere il proprio servizio nella Questura valdostana, è pertinente. E lo è ancora di più, alla luce dell’ intricata e intrigante ipotesi, secondo la quale la permanenza sul territorio ai piedi della catena del Cervino, sarebbe stata voluta dallo stesso Renzi  e, in ogni caso, accettata senza battere ciglio, perché funzionale al progetto di Autonomia della Valle d’Aosta, propugnato dal Comitato di Resistenza, quasi a disegnare una sorta d’ ”Enclave”, che avrebbe dovuto dare continuità alla dinastia sabauda. Che ne avree avuto la reggenza di governo.

   E’ un’ipotesi di forte rilievo, che, tuttavia, allo stato attuale, non risulta avvalorata da congrui documenti. Sta, però, di fatto che Renzi  e  la moglie Franca  Scaramellino il 18 agosto del 1944 sono arrestati, nell’ Albergo Alpino, che li ospitava ad Aosta, e vengono deportati nei campi di concentramento. Franca Scaramellino– era originaria di Vico Equense– viene trasferita nel campo di lavoro femminile di Ravensbruck, e Camillo Renzi nel campo di Dachau.

    Franca Scaramellino segnata dalla deportazione, che aveva affrontato con fierezza, farà ritorno in patria e sarà insignita della Croce al merito, per il sostegno dato alla Liberazione della Valle d’Aosta dalle truppe nazifasciste, mentre Camillo Renzi  non vi farà ritorno, restando ucciso a Dachau. E per l’esemplarità di vita, il senso dello Stato e l’osservanza del giuramento prestato alle istituzioni, rappresentative della società e del comune sentire del popolo è – e resta- il Commissario eroe per l’attiva solidarietà, tradotta in azioni concrete, verso gli ebrei, colpevoli di non appartenere alla “razza ariana”, e i perseguitati per le loro idee politiche.

MUGNANO DEL CARDINALE: GIUSTIZIA E LIBERTA’, DALLA REPUBBLICA PARTENOPEA A CAMILLO RENZI

L’esemplarità civica di Renzi si salda con quei valori di libertà e di giustizia, che a Mugnano del Cardinale ebbero vigore e risonanza sull’onda degli entusiasmi della Rivoluzione partenopea del 1799, grazie al ruolo di animazione culturale e di fede cristiana, che veniva esercitando il Cenobio di San Pietro a Cesarano, il cui vasto e splendido impianto strutturale -adagiato sull’omonima collina- costituisce uno dei più esemplari modelli di architettura montana in Campania. E proprio nel Cenobio  il governo borbonico aveva relegato l’abate calabrese Antonio Jerocades, ”punendolo” per le sue convinzioni, radicate nel pensiero dei Lumi d’Oltre Alpe. E fu proprio Jerocades a piantare, nello storico rione Archi, l’Albero della libertà, simbolo della Rivoluzione. Era il 23 gennaio proprio del 1799. Un atto di coraggio e di grande idealità, coniugato con il proclama di decadenza per l’amministrazione civica ch’era in carica.

E il territorio mugnanese, tra il Ponte di Miano, allo sbocco della gola del Gaudo, e il Ponte di Cardinale, fu teatro dell’aspro e feroce agguato, con cui le preponderanti truppe sanfediste del cardinale Ruffo, favorite dalla conoscenza dei luoghi, sorpresero le truppe dell’esercito della Repubblica. Una carneficina, con almeno 200 giovani repubblicani straziati dalle implacabili fucilate dei sanfedisti, nascosti dalla folta vegetazione e boscaglia dell’impervio sito. Il seguito è noto: il sanfedismo e il clero del potere prevalsero, e con loro l’assolutismo monarchico. Il sogno della Repubblica partenopea si era spento, ma non erano morti gli aneliti alla libertà e alla giustizia, di cui era stata assertrice.

   E’ la ragione, per la quale tra il 1799 delle idealità della Repubblica partenopea e il 1945, quando a Dachau si conclude l’umana vicenda di Camillo Renzi, uomo di giustizia e di solidarietà, corre il filo della continuità morale pubblica e di etica personale, in cui Mugnano del Cardinale si riconosce e identifica con gli aspetti più interessanti e significativi della sua storia civile.

 

I CAMPI D’INTERNAMENTO CIVILE FASCISTA IN IRPINIA

Dopo Mugnano del Cardinale, il viaggio nel territorio nostrano sulle tracce delle vittime delle persecuzioni del nazi-fascismo, fa sosta nelle stazioni dei campi d’internamento di Monteforte, Solofra ed Ariano. E la “guida” della professoressa Gaetana Aufiero  ne dà una fotografia interessante, facendo, tuttavia, rilevare che costituiscono un capitolo di ricerca ancora aperto per gli studiosi di storia locale. La loro istituzione è successiva alla dichiarazione di guerra, che l’Italia proclama il 10 giugno del 1940 contro la Francia  e l’Inghilterra, con la partecipazione diretta al secondo conflitto mondiale, scoppiato nel ’39.

La svolta bellica rende l’Italia uno Stato a regime poliziesco, con l’allestimento dei campi d’internamento civile fascista “aperti” e “chiusi”- quelli di concentramento erano già operativi per la detenzione degli ebrei- in cui vengono relegati tutti i possibili “nemici” del Fascismo; campi che nel Sud furono “attivi” dal ’40 al ‘43. Un’eloquente e, per vari aspetti, farsesca testimonianza del regime poliziesco che si instaurò è espressa dal logo, le cui parole recitano “Taci, il nemico ti ascolta”; logo, come altri analoghi, tra cui quello foriero di vittoria finale, che non ci sarà, declama “ Vincere e vinceremo!”.

Sono “parole d’ordine” perentorie, che, a caratteri cubitali, campeggiano nei locali pubblici e sulle cantonate civiche. In questo clima, è superfluo sottolineare come le delazioni, rivolte alle autorità di pubblica sicurezza e che già erano corpose in chiave anti-ebraica, divennero una diffusa “pratica”, per la quale in tanti s’ingegnarono –con triste cattiveria e con la vigliacca perfidia dell’anonimato- a denunciare coloro che vanno considerati “sovversivi”, “nemici della Patria”, “anti-fascisti”, “disfattisti” e via seguendo nel campionario delle etichettature applicabili, con destinazione incorporata verso i campi d’internamento; campionario, che includeva già di suo e con le “certezze documentali” anagrafiche o sentenze, gli apolidi, gli slavi, i condannati dal Tribunale Speciale. Erano tutti “ soggetti pericolosi”, potenziali sabotatori e attentatori dell’Italia che viveva lo sforzo bellico e le dure restrizioni dell’economia connessa, basata sull’autarchia.

   Su questa traccia è interessante sapere che in provincia di Avellino, furono circa quaranta i Comuni, tra cui Lauro e Avella, ai furono destinati, con il solo obbligo di risiedervi, “internati”, che erano stati allontanati dai Comuni di normale residenza. Furono i Comuni dei “campi aperti”, essendo possibile per gli “internati” muoversi con relativa libertà sul territorio di residenza imposta.

   A Monteforte Irpino, il campo, allestito a Palazzo Loffredo, attuale sede della civica amministrazione, ospitò alcune decine di “internati” politici. Era un campo “chiuso” sotto il controllo diretto delle autorità di pubblica sicurezza. Ma gran parte del materiale documentale d’archivio, concernente l’attività del campo è andato perduto, portato via dalla furia dell’alluvione che investì il territorio negli anni del dopo-guerra. Sono “sopravissuti” solo alcuni atti documentali, con cui gli “internati” si rivolgono agli organi della pubblica sicurezza, per avere l’autorizzazione di uscire dal campo e potersi recare ad Avellino, dove intendono fare acquisti di modesti beni di consumo e altro.

   Un campo d’internamento, destinato a una trentina di donne, la cui età varia dai 20 ai 40 anni, è quello attivato a Solofra. Erano donne di varia nazionalità, sulle cui schede personali erano evidenziati tratti e comportamenti considerati pericolosi per la sicurezza pubblica; tratti e comportamenti, di cui la popolazione locale non ebbe modo e occasioni di verificarne la fondatezza, sia pure larvata.

Ad Ariano Irpino, era attivo un campo “chiuso”, tra i pochi riservati agli allogeni, denominazione grecizzata, per indicare coloro che appartenevano ad etnie non-italiane; ed erano definiti allogeni nelle relative schedature per le loro idee e convinzioni, considerate incompatibili con la realtà dell’Italia in guerra. Erano coloro che erano nati e vissuti nelle regioni della Dalmazia e d’Istria, interessate per oltre venti anni da una capillare e intensa politica di “italianizzazione”, che si saldò con la fascistizzazione nazionalista, con cui lievitarono i germi della “difesa della razza”, la cui maturazione si configurò con la legislazione anti-ebraica del ’38; legislazione, che nel Terzo Reich aveva preso l’abbrivio fin dal 1933, quando Hitler, in libere elezioni, conquistò il potere in Germania, con le insegne del nazionalsocialismo, le cui coordinate erano

Era questo -va ricordato- il retaggio anche del dannunzianesimo patriottardo, che campeggiò nell’opinione pubblica dopo la prima guerra mondiale, quando si spensero le luci di quella sobria e pacifica  Mitteleuropa, della quale Trieste era stata l’ineguagliabile faro per cultura, arte e dinamismo economico. E va del pari ricordato che gli orrori e l’abominio delle foibe del secondo dopo-guerra mondiale saranno l’atroce e ferrea impronta della “slavizzazione”, che si consumò sulle stesse terre d’Istria e della Dalmazia contro gli italiani.