NOLA. Il vescovo Marino ha ordinato due nuovi sacerdoti: «Impegnatevi a tendere alla perfezione spirituale. Siate preti santi, padri fedeli, profeti di Dio»

NOLA. Il vescovo Marino ha ordinato due nuovi sacerdoti: «Impegnatevi a tendere alla perfezione spirituale. Siate preti santi, padri fedeli, profeti di Dio»

dI MARIANGELA PARISI ( inDialogo)

Una testimonianza credibile del Vangelo, anche a caro prezzo. Possiamo racchiudere in queste poche parole il messaggio dell’omelia che il vescovo Marino ha tenuto lo scorso lunedì, Memoria liturgica di San Giuseppe, durante la celebrazione eucaristica per il conferimento del sacramento dell’ordine presbiterale ai diaconi Ciro Toscano e Vincenzo Tramontano.  «L’esercizio della funzione presbiterale – ha infatti sottolineato monsignor Marino – esige e favorisce la santità». Prima di tutto annunciatore della Parola, il presbitero è chiamato «alla perfezione spirituale e al dovere di tendervi»: è su questa fedeltà che si fonda infatti la sua paternità, il suo essere educatore, come Giuseppe.
Casto, obbediente, fedele e sognatore, Giuseppe è figura, immagine del presbitero e a lui il  vescovo Marino affida i due ordinandi perché possano come il padre di Gesù, secondo la Legge, imparare a vivere da padri–non– padri: «Giuseppe è padre–non– padre. In piena consapevolezza accetta il disegno di Dio. È un padre che ha permesso a Gesù tutta la sua crescita. Grazie alla presenza non invasiva, ma essenziale, quale sposo di Maria e perno della famiglia, senza occupare un posto che non è suo, Giuseppe accompagna Gesù – e anche questo è un grande mistero – in tutta la sua ricerca, in tutta la sua lotta, in tutte le sue domande sulla sua origine, sul suo vero padre. È stato Giuseppe accanto, in silenzio, ma presente». Una tensione, quella che caratterizza la vita di Giuseppe, comprensibile e in grado di dare frutti solo alla luce del disegno di Dio e che è simile a quella che caratterizza la realtà esistenziale del presbitero «nella sua condizione casta, nel servizio obbediente e libero, nella fecondità spirituale senza possesso, nella dedizione incondizionata al Regno di Dio». E non è mancato il riferimento al Vaticano II nel richiamare il decreto sul ministero e la vita dei presbiteri, per ricordare la «dimensione comunitaria» nella quale ogni sacerdote deve vivere il proprio ministero, essendo «i presbiteri collaboratori dell’ordine dei vescovi, legati gli uni agli altri nell’ordine del presbiterato» ed essendo «ciascun presbitero unito agli altri da particolari vincoli di carità, di ministero e di fraternità» in «un legame intimo e sacramentale che tocca profondamente tutta la loro personalità, struttura tutta la loro vita e trasforma la loro esistenza». La fragilità umana sarà sempre in agguato, ha ricordato monsignor Marino, ma, la custodia di quella tensione vissuta anche da san Giuseppe, sarà la possibilità per continuare ad essere credibili nonostante i limiti: come Davide, «grande perché piccolo. È piccolo, il più piccolo tra i figli di Jesse ma è scelto da Dio piccolo davanti al gigante Golia. Nel testo ascoltato (2Sam 7) emerge il suo desiderio di fare un grande tempio a Dio. Ma sarà suo figlio Salomone a costruire il grande tempio. A Davide convengono le cose piccole, perché è piccolo: nel sentirsi piccoli davanti a Dio risiede tutta forza della fede. Il Regno di Dio non è forse come un chicco di grano che deve sparire e crescere?». Rimarcando ancora l’insegnamento del Vaticano II, monsignor Marino ha invitato i due ordinandi a custodire il dono che stavano per ricever e ha citato il filosofo Jean Guitton, amico personale di Paolo VI e uditore del  Concilio: «Voi (presbiteri, ndr)  vincerete sempre, se vi stabilirete con gioia, con forza, con una semplicità radiosa in ciò che è il vostro proprio ed incomunicabile dominio: il sacerdozio. Vi domandiamo innanzi tutto e al di sopra di tutto di dare a noi Dio, soprattutto con quei poteri che solo voi avete: assolvere e consacrare. Vi domandiamo di essere…gli ambasciatori dell’Assoluto! E senza l’Assoluto che ci avviluppa noi non potremmo neanche godere del relativo. Or dunque, avendo fame e sete d’assoluto e non trovandolo in nessun posto allo stato puro, noi abbiamo bisogno di avere vicino a noi un essere simile a noi che, anche nella sua mediocrità e nella sua miseria, incarni l’idea dell’Assoluto e ci provi con la sua presenza che può esistere, che è anche più presso noi di quanto noi stessi non pensiamo».