CEI e Caritas Italiana annunciano la IV edizione del progetto “In un altro mondo”

CEI e Caritas Italiana annunciano la IV edizione del progetto In un altro mondo

Saranno i più poveri della terra al centro della vita di 4 giovani ai quali sarà chiesto di misurarsi concretamente con 4 valori da non dimenticare: solidarietà, altruismo, condivisione e fraternità. CEI e Caritas Italiana annunciano così la IV edizione del progetto In un altro mondo con il quale si vincono gioie e fatiche, sorrisi e sudore.

Rivolto ai giovani dai 20 ai 30 anni, le iscrizioni partite il 26 marzo si concluderanno il 27 aprile. In palio un mese nelle periferie del mondo dove l’8xmille destinato dagli italiani alla Chiesa cattolica può fare la differenza, e restituire dignità umana. Infatti i giovani vincitori saranno accolti da strutture sostenute con queste risorse, nelle quali non vivranno come ospiti ma come amici venuti da lontano, sapendo che dovranno essere pronti a condividere momenti di allegria e di lavoro con chi vive e abita in quei luoghi.

Alla domanda chi sono i giovani d’oggi? io rispondo che sono ciò che sono capaci di fare. E coloro, tutti coloro, che hanno partecipato finora a “In un altro mondo” hanno dimostrato di essere in grado di mettersi in gioco con spirito di sacrificio e grande senso di solidarietà e fraternità“, afferma Matteo Calabresi, responsabile del Servizio Promozione della C.E.I. promotore del bando. “Quando abbiamo pensato a questo progetto, è stata una sfida: i giovani avrebbero aderito ad una gara la cui posta in gioco era quella di trascorrere un mese senza riposo, relax, discoteca, tuffi al mare e cene con gli amici? La risposta ha superato ogni aspettativa, facendo registrare numerosi candidati. Chi è stato selezionato ha confermato che oggi i giovani sono disposti al sacrificio, ripagato dalla vera gioia del dare“.

Lo dimostrano le testimonianze di coloro che hanno vinto la scorsa edizione (in allegato). Un esempio per tutti qualche frase di Ivan al rientro dalle Filippine, testimone di progetti di post-ricostruzione dopo l’emergenza dovuta al tifone Haiyan: “Mi viene in mente una sola parola per provare a racchiudere una valigia piena zeppa di emozioni vissute in quei luoghi: ‘umano’. Ho scoperto valori che da questa parte del mondo non abbiamo più voglia di curare, di accudire. L’amore verso la propria Terra, il rispetto verso la vita, la condivisione di ogni bene con il resto degli uomini. Lì, ho visto bambini senza scarpe sorridere di gusto, uomini senza un soldo in tasca ringraziare la natura per i suoi doni, donne stanche ritrovare le forze nell’abbraccio della propria famiglia“.

Anche quest’anno la selezione dei 4 candidati avverrà sul web, attraverso il sito www.inunaltromondo.it sul quale sarà pubblicato il materiale multimediale raccolto della loro esperienza. La partenza è prevista tra fine luglio e i primi di agosto alla volta della Caritas per la ricostruzione dopo l’uragano Mathiew ad Haiti, dell’associazione Centro Orientamento Educativo COE per la promozione dei diritti umani e il reinserimento dei detenuti nelle carceri in Camerun, del centro diurno per anziani dell’ATS – associazione Pro Terra sancta in Palestina e alla volta della Casa della Provvidenza che accoglie bambine di strada a Calcutta.

Le testimonianze dei vincitori della III edizione di In Un Altro Mondo 2016

http://www.inunaltromondo.it/edizione-2016

Lo scorso anno, al rientro dal mese di volontariato, i 4 ragazzi “inviati speciali” dall’Italia hanno condiviso con noi, attraverso racconti ed immagini, i 30 giorni trascorsi nelle 4 opere sostenute con l’8xmille in Ecuador, Brasile, Serbia e Filippine. Un tempo “pieno” che ha lasciato un carico di emozioni ed esperienze per sempre nei loro cuori.

Barbara – Ecuador

C’è una frase che mi ha sempre colpito al cuore, ogni volta che per caso mi ritrovavo a leggerla da qualche parte. Una frase che proprio non riuscivo ad interpretare, una frase che faticavo a comprendere nella sua misteriosa complessità. “Partire è un po’ morire”, leggevo come introduzione di qualche libro, o come incipit di alcuni racconti trovati in rete. Vedevo “il viaggiare” sempre come un arricchimento personale, come se ogni viaggio fosse un tassello da aggiungere ad un puzzle da portare sempre con sé.

Poi, però, sono partita in Ecuador. Un paese meraviglioso, che nella sua eterogeneità mi ha cambiato la vita. Sono partita in Ecuador, scoprendo delle città che mai mi sarei sognata di scoprire, attraversando delle strade la cui polvere mi ha fatto rinascere, e l’ho fatto conoscendo persone che mi hanno fatto sentire a casa dal primo sorriso. “Partire è un po’ morire” sì, perché un’esperienza così non può che donarti nuovi occhi, per guardare un orizzonte che mai avresti immaginato.

Ho conosciuto il vero Ecuador entrando nelle case delle famiglie con bambini con disabilità, ho scoperto la vera bellezza del donarsi, sentendo il cuore che accelerava i battiti quando la mamma di una bambina disabile e cieca mi ha abbracciato dicendo parole che non riuscivo a comprendere, ho sentito la gioia che attraversava l’aria calda della foresta equatoriale, quando un bambino su una sedia a rotelle mi ha stretto la mano sorridendo.

Ed ecco che ci si sente un po’ morire, ma solo per rinascere immediatamente, per capire che tutto quello che pensavi di aver capito fino a quel momento, in realtà non ha alcuna importanza, per capire che la vita è una cosa meravigliosa e che non importa proprio per niente che la tua casa sia fatta di assi di legno o di cemento, domani il sole sorgerà lo stesso, illuminerà la mia vita esattamente come la tua, e non c’è nulla di cui preoccuparsi perché ci sarà sempre un motivo per sorridere.

L’Ecuador mi ha insegnato questo, e non sarò mai grata abbastanza per tutte le persone che quotidianamente mi hanno fatto “morire”, perché se non fosse stato per ogni incontro casuale, per ogni sorriso per strada, la mia vita non sarebbe rincominciata, e oggi non riuscirei a smettere di chiedere a me stessa: “ma chi ero prima di partire?”.

Ivan – Filippine

Ci sono esperienze. E poi ci sono ESPERIENZE. Solo apparentemente lo spazio tra le due è sottile. In realtà, il passo è immenso.

Un mese a Roxas, nelle Filippine, a contatto con le realtà Caritas, seduto accanto a chi ha visto l’inferno nell’occhio di un ciclone, è stato un viaggio dal valore inestimabile. Ci sono mille aggettivi per descrivere una terra ricca e primordiale, per raccontare di una cultura profondamente diversa ed affascinante, per spiegare il sacrificio e la lotta di uomini e donne eccezionali. Ma non basterebbero.

Mi viene in mente una sola parola per provare a racchiudere una valigia piena zeppa di emozioni vissute in quei luoghi: “umano”. Lì, tra l’infinito verde delle isole e gli occhi vivi della gente dei baranggay, ho scoperto valori che da questa parte del mondo non abbiamo più voglia di curare, di accudire. L’amore verso la propria Terra, il rispetto verso la vita, la condivisione di ogni bene con il resto degli uomini. Lì, ho visto bambini senza scarpe sorridere di gusto, uomini senza un soldo in tasca ringraziare la natura per i suoi doni, donne stanche ritrovare le forze nell’abbraccio della propria famiglia.

Non è stato un viaggio in un Paese diverso. È stato piuttosto atterrare su un altro pianeta, come il nostro, ma indietro di secoli. Poche case, ma tanti incontri. Poche fabbriche, ma distese di piante. Poche tv, ma tanti racconti. Poche opportunità, ma un’esplosione di vitalità.

C’è un solo modo di concludere questo ricordo. “Grazie”. O meglio, “Salamat”. Grazie a chi mi ha permesso di arrivare lì, a guardare, a testimoniare. Grazie a quella Terra viva ed ospitale. Grazie a quegli occhi che non mi hanno mai fatto sentire diverso, a quelle mani che mi hanno accolto come se mi conoscessero da sempre.

Irene – Serbia

Dai un calcio all’impossibile. Se ci riesci, rimane solo “possibile”. Questa parola fa sempre rima con speranza, e la speranza va a braccetto con la forza.

In quei trenta giorni in Serbia io ho visto queste tre parole rincorrersi tra le strade di Belgrado, andare a sbattere contro i muri ungheresi, perdersi nel bosco oltre di essi.

Sono sinceramente contenta che Caritas Italia aiuti a nutrire la speranza di quei migranti che sono bloccati in quelle strade polverose accanto all’autostrada, perché quello che succede sotto quei muri è qualcosa che dovrebbe essere sempre al telegiornale, invece di tv non ce ne erano. Quello che succede sotto quei muri, ma anche in tutti i campi profughi della Serbia, sono convinta entrerà nei libri di storia e occuperà altre pagine in bianco e nero, nonostante il fatto che gli anni che stiamo vivendo siano digitalmente coloratissimi. Allora ben venga chi riesce a superare il detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” e ad impegnarsi concretamente, nonostante il parere contrario di chi vede in ogni straniero un’autentica minaccia. Non è facile: è palpabile la stanchezza di chi si impegna, di chi deve avere a che fare quotidianamente con questa mutevole situazione da gestire, o da vivere come operatore, ma la realtà è che se conosci ciò che ti succede intorno, non puoi fregartene.

Se incontri le persone di cui si parla, non puoi non indignarti. Finché sarà possibile passare i confini dell’Unione Europea, i migranti sulla rotta balcanica troveranno la forza di continuare a camminare, anche a costo di nutrirsi solo della speranza di ottenere una serenità maggiore di quella appartenente alla vita che si sono già lasciati alle spalle.

Possibilità, speranza e forza. Se dovessi sintetizzare queste tre parole userei la parola Ayub, che corre ancora, ma oggi lascia le sue orme nelle strade di una capitale dell’UE. Userei i nomi di tutte le persone che ho incontrato e gli occhi di quelle di cui non ho conosciuto il nome che camminano su quelle strade polverose accanto all’autostrada, mentre aspettano che quella bellissima dichiarazione universale dei diritti umani diventi realtà, anche se con quasi settant’anni di ritardo.

Perché, in fondo, se lo si vuole veramente, tutto è possibile.

Silvia – Brasile

“Silvia fallo”. Questo è stato l’ultimo dialogo con me stessa pochi minuti prima di inviare la candidatura. Mille perplessità ed incertezze. Non ero mai partita prima per questo tipo di esperienze, ma un desiderio inspiegabile di volerlo fare viveva in me da troppo tempo ormai. È così, un passaporto, una valigia ed uno zaino sono stati la mia compagnia per quasi tre giorni di volo. E poi eccolo, un piccolo aeroporto, un vento caldo, ed una scritta ” Bem-vindo ao Juazeiro do Norte”. Pochi giorni di disorientamento e poi fu subito casa. Sono stata accolta da quella che è poi diventata la mia famiglia in questo mese, in una comunità di missionarie delle suore Camiliane a Juazeiro do Norte, rinomata per essere la capitale brasiliana delle violenze (di qualsiasi tipo) soprattutto verso il genere femminile. Ogni mattina occhi e cuore si immergevano nelle strade, nei racconti, nelle storie che ascoltavo e vedevo durante le quotidiane “visite domiciliari”. Una periferia di povertà e violenza, dove sorgono piccole strade di terra rossa, ovvero piccole ma numerosissime favelas.

Il pomeriggio, invece, dalle due alle cinque eravamo impegnate al centro di accoglienza, lì si svolgono corsi di vario tipo e soprattutto, la maggior parte professionalizzanti tra cui quello di cucito e quello di artigianato. Gli altri invece riguardavano lezioni di chitarra, di piscina, di informatica o semplici attività di gioco e socializzazione.

Le prime due settimane osservavo, partecipavo, davo una mano, dopodiché ho iniziato (due volte a settimana) a fare corsi di italiano per bambine ed adolescenti. Foto, interviste, racconti erano parte delle mie giornate. Lacrime, rabbia ed impotenza le emozioni più dure da mandare giù. Non è facile dare per scontato tutti i vissuti di queste ragazze, la maggior parte vittime di violenza, o legate a prostituzione e, soprattutto, droga, elemento molto forte in quelle zone.

Ho lasciato un paese ed un quartiere che era diventano il mio, una casa ed una comunità che era e continuo a dire che è tutt’ora la mia famiglia. Ma soprattutto le mie bambine e ragazze, che porterò con me sempre, il loro sorriso, la loro forza ed il loro coraggio.

Non c’è niente di più difficile del ritorno. Un pezzo di me è rimasto lì e forse non farà più parte di me, ma sono contenta che sia rimasto là, con il mio ricordo ed il mio contributo. Per me però questa esperienza è stato l’inizio della mia vita. Inizierò l’università, studierò, continuerò a lavorare nell’ambito del sociale e tornerò, certo che tornerò, con un progetto, proprio come mi è stato chiesto prima di ripartire. Un po’ glielo devo, anche perché, per me sono loro che hanno aiutato, in un certo qual modo, me.