Made in Italy: cosa bisogna sapere sulla certificazione e come valorizzare i propri prodotti all’estero e online

Made in Italy: cosa bisogna sapere sulla certificazione e come valorizzare i propri prodotti all’estero e online

La certificazione Made in Italy rappresenta un vero e proprio valore aggiunto per le aziende italiane, riconosciuta come sinonimo di qualità, tradizione e eccellenza. Tuttavia, quando e come si può utilizzare questo marchio? Sono molte le aziende che si chiedono se devono usare materie prime italiane o se basta una semplice lavorazione in Italia per dichiarare un prodotto “Made in Italy”. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Enrico La Malfa, esperto di proprietà intellettuale e di normativa sul marchio e fondatore di registrareunmarchio.it, che ci ha spiegato cosa dice la legge e quali sono le opportunità per chi desidera valorizzare le proprie produzioni, anche online, sfruttando il valore del territorio e la reputazione internazionale del made in Italy.

Dottor La Malfa, molte aziende italiane sono consapevoli dell’importanza del marchio Made in Italy, specialmente sui mercati internazionali, ma spesso si chiedono: posso usare questa dicitura anche se produco con materie prime importate? Come si interpreta correttamente la normativa in questo senso?

È una domanda molto diffusa e fondamentale. La normativa sul Made in Italy non richiede necessariamente che tutti i materiali siano di origine italiana, ma invece si concentra sul processo di produzione e sulla trasformazione sostanziale. In sostanza, un prodotto può essere certificato come “Made in Italy” anche se utilizza materie prime importate, purché l’ultima fase di lavorazione o la trasformazione più rilevante siano effettuate in Italia. Quindi, non basta una semplice assemblaggio o un confezionamento in Italia per usare questa dicitura, ma è fondamentale che la lavorazione principale, quella che dà valore al prodotto, avvenga nel nostro Paese.

Può farci un esempio pratico di questa normativa? Per esempio, nel settore dell’abbigliamento o della pelletteria.

Certamente. Supponiamo che un’azienda italiana importi fibre di lana dall’estero e le trasformi in tappeti nel proprio stabilimento italiano. In questo caso il prodotto può usufruire del marchio “Made in Italy” perché la trasformazione – in questo caso, la lavorazione sostanziale – avviene in Italia. Viceversa, se un’azienda si limita a importare giacche già completate in Francia e poi si limita ad aggiungere i bottoni, non potrà usare questa certificazione, perché l’origine principale del prodotto è estera e la lavorazione effettuata in Italia, in questo caso, non è sufficiente a ritenere il prodotto “italiano”.

Quanto è importante, invece, il rispetto delle proporzioni nell’utilizzo di materie prime italiane e straniere? Esiste una soglia oltre la quale non si può più usare il marchio?

La legge non stabilisce una percentuale precisa, ma richiede che l’attività di lavorazione italiana sia significativa e rilevante, contribuendo in modo sostanziale al valore del prodotto. Per esempio, se si produce abbigliamento, la maggior parte delle materie dovrebbe essere di origine italiana o, comunque, la fase di lavorazione italiana deve rappresentare il passaggio più importante del processo. Se l’apporto di materiali italiani è minimo o il prodotto finito deriva principalmente da materiali esteri, l’uso del marchio può risultare scorretto o addirittura passibile di contestazioni.

Per quanto riguarda il “Made in Italy” totale, ovvero il cosiddetto “100% Made in Italy”, quali sono i requisiti più stringenti? È più difficile ottenerlo?

Esattamente. Il marchio “100% Made in Italy” o “tutto italiano” è molto più restrittivo e richiede che l’intero processo produttivo avvenga in Italia, a partire dalla selezione delle materie prime fino alla consegna del prodotto finito. La legge e gli organismi di certificazione richiedono che non ci siano passaggi o lavorazioni effettuate fuori dai confini italiani, e che ogni fase di produzione sia svolta nel nostro Paese. Questo crea un vantaggio competitivo decisamente maggiore, ma anche una maggiore attenzione e rigore nel rispetto dei requisiti.

Quale consiglio si sente di dare alle aziende italiane che vogliono comunicare il valore “Made in Italy” sui mercati esteri e online, come ad esempio su piattaforme come Amazon?

Il primo consiglio è di conoscere bene la normativa, affidandosi a professionisti esperti per evitare di incorrere in contestazioni o sanzioni. È importante inoltre comunicare in modo trasparente e coerente con il reale processo produttivo, valorizzando le fasi di lavorazione italiane che effettivamente vengono svolte. Per le aziende che vendono online, il marchio può rappresentare un vero e proprio vantaggio competitivo, ma solo se la certificazione è corretta e sostenibile rispetto alle normative. In questo senso, un investimento nella chiarezza e nel rispetto delle regole si traduce in una comunicazione più credibile e autorevole, rafforzando il prestigio del made in Italy nel mondo.

L’intervista con l’avvocato Enrico La Malfa chiarisce che la normativa sul Made in Italy è complessa ma molto articolata, mirata a tutelare sia le aziende che i consumatori. La chiave è comprendere che non basta semplicemente etichettare un prodotto come “italiano”: bisogna rispettare le fasi di lavorazione e la provenienza delle materie prime, valorizzando le trasformazioni sostanziali effettuate nel nostro Paese. Per le imprese che vogliono sfruttare appieno il valore del marchio, una corretta interpretazione delle norme può fare la differenza tra una comunicazione di successo e un rischio di contestazione. Con un’attenta strategia e il supporto di esperti, il made in Italy può continuare a rappresentare un vantaggio competitivo, anche nel mondo digitale e delle piattaforme di e-commerce.