BAIANO. Foto di fine anni Ottanta. Uno squarcio di vita baianese che riemerge dal passato: la generazione della prima metà del ‘900 che si gode la piazza nel giorno della Festa di S. Stefano

BAIANO. Foto di fine anni Ottanta. Uno squarcio di vita baianese che riemerge dal passato: la generazione della prima metà del ‘900 che si gode la piazza nel giorno della Festa di S. Stefano

BAIANO. Foto di fine anni Ottanta. Uno squarcio di vita baianese che riemerge dal passato: la generazione della prima metà del ‘900 che si gode la piazza nel giorno della Festa di S. Stefano
Foto di fine anni
Ottanta. Uno squarcio di vita baianese che riemerge dal passato: la generazione della prima metà del ‘900 che si gode la piazza nel giorno della Festa di S. Stefano. Da sinistra: Paolino Candela, Vincenzo Ruberto, Stefano Candela, Ludovico d’Ischia, Francesco Conte, Mario Napolitano, Alessandro Ferrara.

Paolino Candela, contadino, una intera vita trascorsa nei campi, come era all’epoca. Infatti i nostri contadini vivevano nella “terra” e per la “terra”: si cominciava a lavorare il primo gennaio per finire il 31 dicembre, con pochissime interruzioni (Pasqua, Natale e S. Stefano). Carattere aperto e schietto, accettava con piacere consigli sull’evoluzione delle tecniche di lavorazione. Appassionato cultore dei canti contadini, amava esibirsi con la sua bella voce.

Vincenzo Ruberto, muratore nella impresa familiare costituita dai fratelli Giovanni e Francesco, ma talvolta emigrante in Germania.  Un lavoro faticosissimo, massacrante, quello del manovale edile. Infatti non vi erano ancora mezzi meccanici e l’unica fonte di energia disponibile era quella muscolare. Il simbolo di quella fatica erano le pesantissime cardarelle”, recipienti di ferro per il trasporto di malte, sabbia, calce spenta,pietrisco.  Pesantissima a pieno carico, ci voleva una grande forza per trasportarla, in genere appoggiata sulle spalle, e lasciava stremati alla fine di ogni giornata lavorativa. La “cardarella”, ormai in disuso, è stata per decenni il simbolo della massacrante fatica di chi era costretto sotto ‘e fravecature cacardarellancuollo”.

Stefano Candela, ‘o ottafruscio, muratore, titolare serio e corretto di affermata ditta a Baiano, specializzato nella lavorazione dei blocchetti di tufo. Anche la lavorazione del tufo era operazione faticosissima. Il tufo era fornito grezzo e occorreva “squadrarlo” per essere impiegato nella costruzione. La squadratura si effettuava con un attrezzo speciale: una larga martellina di ferro con un lato affilato e un manico di legno per impugnarla (‘a stina). Per una intera giornata si stava in piedi, con la schiena piegata, spianando i lati della pietra con la martellina: una posizione scomoda e sofferta, sopportata con un irriducibile spirito di sacrificio (oggi sarebbe insostenibile).  

Ludovico D’Ischia, artigiano di grande esperienza, maturata nel costruire carretti (‘e traini) nella bottega di Pasqualino Masi, ‘orutaro. Un mestiere complesso quello del “rutaro”, perché occorrevano eccezionali competenze in diversi campi: lavorazione del ferro, a freddo e a caldo, del legno e pitturazione. L’operazione più delicata e difficile era la costruzione del cerchione di ferro che doveva contenere le ruote, una complessa prova di abilità. Si sceglieva un ferro piatto largo circa cinque cm e spesso 2 e lo si modellava, in una sorta di piegatrice, ricavandone un cerchione le cui estremità venivano saldate col sistema in uso prima dell’invenzione delle saldatrici e cioè scaldandole al “calor bianco”, schiacciandole, sovrapponendole, martellandole fino alla reciproca compenetrazione. Poi si poneva il cerchione su braci molto ricche e vive che scaldandolo a temperatura molto alta lo facevano dilatare fino a potervi inserire di giustezza la ruota. A quel punto lo si raffreddava con copiosi getti d’acqua per farlo contrarre ed ottenere che la ruota rimanesse saldamente costretta nel cerchione. Grazie alla sua riconosciuta professionalità, fu poi assunto (e apprezzato) in un cantiere navale nel porto di Napoli.  

Francesco Conte, boscaiolo per tradizione familiare dei Conte, un mestiere praticato da moltissimi anche perché ben remunerato. I nostri lavoratori boschivi erano apprezzati per l’esperienza che maturavano: il bosco era la loro casa e sapevano valutare specie e quantità di prodotto (travi di varie specie, travicelli, pertiche, legname per traverse, traversine, doghe, ecc.). Espertissimi nelle difficoltà di taglio, di trasporto e logistiche, abbattevano gli alberi a forza di braccia e maneggiando con estrema abilità e vigoria la scure, ”a ccetta, oggetto della loro personale e più scrupolosa cura. Per tale motivo erano richiesti in altre regioni, come Calabria e Lucania, ma anche all’estero. Infatti Francesco fu chiamato, per esercitare il suo mestiere, in Corsica, insieme a un folto gruppo di baianesi: ricordiamo tra gli altri  Angelantonio Candela e il fratello Stefano, Pasqualotto Colucci, PeppeLippiello. Rientrato a Baiano, continuò la sua attività di boscaiolo al servizio di una industria boschiva di Mugnano del Cardinale.

Mario Napolitano, Mastu MarioeMastaclemente, falegname, con storica bottega nel quartiere SS. Apostoli, di fronte PalazzoSpagnuolo.  Poi si trasferì nei locali sotto casa sua, ‘Ncoppa a Mazzcatora, ‘o Crocifisso. Ricordo ancora l’atmosfera della bottega, spesso impregnata di profumi particolari: quello della“colla di pesce” (ricavata da sostanza proteica estratta da pelli di pesci e messa a bollire lentamente in doppio recipiente, a bagnomaria)  e della “gommalacca”, sostanza prodotta dalle secrezioni di insetti parassiti di piante tropicali, sciolta in alcool e impiegata per lucidare mobili. Si imbeveva un tampone di ceralacca e si strofinavano  per lunghissimo tempo le superfici da lucidare.

Alessandro Ferrara, cittadino di Mugnanodel Cardinale, ma sposato con Maria, sorella di Pietro Fiore. Impiegato nell’ATAN a Napoli, abitò per qualche anno a San Giorgio a Cremano prima di trasferirsi a Baiano.

Gli anziani, storicamente, hanno sempre avuto un ruolo importante nelle comunità dell’epoca. Costituivano un esempio per le giovani generazioni, un modello di vita. Il loro patrimonio di esperienza, di saggezza, di conoscenza, di civile e umana convivenza nella società, maturato in anni di duro lavoro e di capacità di integrazione nella comunità, era un fondamentale riferimento per tutti.

I personaggi seduti in panchina costituiscono uno spaccato di quel modello di società che ha caratterizzato per molti decenni, se non secoli,  la nostra vita. Una società che basava la propria esistenza sull’impegno personale, sul lavoro, duro e quotidiano, sulla capacità di sacrificarsi per la famiglia e per la comunità, sulle rinunce. I nostri avi sapevano di poter contare solo sulle loro forze, senza aiuti o privilegi dall’alto ed hanno sempre compiuto il loro dovere. Non è un caso, ma su quella panchina sono rappresentati i diversi mestieri che hanno consentito al popolo baianese di vivere, certamente con enormi sacrifici e privazioni, ma dignitosamente: falegnami, fabbri, boscaioli, muratori (manovali e capomastri), contadini. Ciascuno cercava tenacemente la propria  strada, anche perché l’alternativa era solo l’emigrazione, che, con la paura dell’ignoto, rimescolava a fondo il proprio destino.

Un modello di organizzazione sociale, dunque, ormai archiviato, fondato sui rapporti personali, di parentela, d’amicizia o di vicinato: in paese tutti sapevano tutto di tutti.  La condivisione da parte di ciascuno di tutte le problematiche esistenziali comuni, la concorde decisione di affrontare insieme le difficoltà, anche in considerazione dell’assenza dello Stato, induceva la Comunità a farsi carico di funzioni civilissime e fondamentali quali la solidarietà, l’assistenza, il controllo dell’ordine e della moralità pubblici. Ciascuno sentiva fortemente il senso di appartenenza e il concetto del bene comune e, con tale consapevolezza, contribuiva a rafforzare le strutture comunitarie. Questa salda organizzazione sociale, che aveva per lunghissimo tempo scandito il ritmo di vita dei nostri padri, è rimasta viva fino agli inizi degli anni sessanta. Costituiva una dimensione che alle giovani generazioni è risultata del tutto estranea e sconosciuta.

E probabilmente sarebbe educativo e utile raccontare la nostra storia, per far loro acquisire la piena consapevolezza delle proprie radici e convincerli che tutti noi siamo figli di quelle esperienze e di quei costumi di vita.

Antonio Vecchione