Perché il caso Pistorius consegna la sensibilità etica al mercato globale.

MARCO LONGARI PRETORIA, SOUTH AFRICA - JULY 6: Olympic athlete Oscar Pistorius reacts as he leaves the High Court after sentencing on July 6, 2016 at the High Court in Pretoria, South Africa. Pistorius was sentenced to six years in prison for the murder of girlfriend Reeva Steenkamp at their home in 2013. (Photo by Marco Longari - Pool/Getty Images)

Perché il caso Pistorius consegna la sensibilità etica al mercato globale.

Che cosa ci insegnano il caso Pistorius, il caso Weinstein sulla globalizzazione del problema.

Nuovo colpo di scena nella vicenda giudiziaria che vede coinvolto il campione paraolimpionico Oscar Pistorius. Il velocista, infatti, ha visto, in appello, raddoppiare la condanna inflittagli  per l’omicidio della fidanzata Reeva Steenkamp. La notizia arriva alla vigilia della giornata contro violenza sulle donne, il 25 novembre. Ma Pistorius chi è oggi? E soprattutto, che cosa dobbiamo dedurre da questa coincidenza di avvenimenti?

Nel 2011 salì agli onori delle cronache per ben altri motivi: vinse un argento ai mondiali nella categoria normodotati. La sua divenne, rapidamente, una storia di successo a livello planetario. Nel 2013 sparò e uccise Reeva nella casa di Pretoria. Sostenne di averla scambiata per un ladro, un ladro stranissimo visto che la fidanzata stava chiusa nel bagno… L’opinione pubblica fu da subito molto scettica sulla sua versione. Portando avanti la teoria della “non intenzionalità” del crimine, i suoi avvocati riuscirono a farlo condannare, nel 2014, per omicidio colposo e non volontario, reato ben più grave, come chiedeva invece l’Accusa. Iniziò a scontare il primo anno della pena in carcere e, successivamente, ottenne i domiciliari per i rimanenti 4. Ma davvero i dubbi sul perché Pistorius ha ucciso Reeva non sono mai stati molto chiari. Questa lieve condanna ha infatti dato origine a subito a molte perplessità. L’Accusa, infatti, è ricorsa in appello. Tante furono le critiche: i giudici sono stati accusati di troppa clemenza nella valutazione delle responsabilità, gravi, di un personaggio che era, a tutti gli effetti, un’icona internazionale per la Repubblica Sudafricana. Nel 2016, il prosecutor, vinto il ricorso in appello, è riuscito a far condannare Pistorius per omicidio volontario. Il reato è stato, quindi, modificato ma, nonostante ciò, la pena inflitta è stata comunque molto leggera, grazie a varie attenuanti ( 6 anni che sarebbero potuti essere ridotti a 2 per buona condotta). La “forma giuridica”, in un certo senso, è stata salvata, però la sostanza non è cambiata granché. I prosecutors non si sono arresi e siamo arrivati a oggi con la pena portata a 13 anni e 6 mesi.

Una vicenda ricca di colpi di scena quindi. In un solo anno la pena è più che raddoppiata. Sembra più un mercato azionario che una valutazione di responsabilità. Capita anche da noi di assistere a sentenze diverse tra gradi di giudizio ma, laddove un soggetto venisse considerato colpevole di un certo reato, una tale variazione della pena specifica sorprenderebbe non poco gli addetti ai lavori.

Cosa è successo quindi nel caso Pistorius in poco più di un anno? Innanzitutto c’è da considerare che la condanna a soli sei anni per omicidio volontario era già molto bassa, il codice ne prevede un minimo di 15. Quindi, anche nel 2016 Pistorius, forse, ha avuto un giudizio di favore. Dovremmo perciò concludere che la sentenza fatta ora sia più in linea con quella che sarebbe emessa a carico di un qualunque altro cittadino sudafricano. Sembra quasi che ci sia stato “un conflitto di valori”: da una parte l’icona nazionale sportiva, dall’altra la gravissima violenza su una donna. Negli ultimi mesi, a partire dallo scandalo Weinstein, c’è stata “un’emergenza internazionale” per i, numerosissimi, casi di violenza sulle donne. Queste prevaricazioni ci sono sempre state, purtroppo. La vicenda di Pistorius del 2013 ne è, infatti, un esempio plateale.

Nel processo di globalizzazione dell’informazione si è creato “un mercato dei valori” che funziona secondo precise leggi più affini all’economia che alla filosofia. Ormai la comunicazione è solo parzialmente legata ai giornali, cartacei o web, procede sopratutto sui socials. Il presidente Trump ha come “portavoce” Twitter: con poche parole detta la sua agenda, fa e disfa alleanze internazionali, appoggia o condanna colpi di stato. Si possono valutare le “quotazioni” di un certa tematica analizzando la diffusione della stessa sui posts di Facebook, Instagram, Twitter, etc. La “quotazione” del tema “violenze e prevaricazioni sulle donne” continua a viaggiare sui “massimi”. Fortunatamente direi, almeno fino a quando non sarà fatto un repulisti, soprattutto di chi, fino a ieri, si ergeva a giudice della morale. La questione è molto interessante in quanto le dinamiche di comunicazione del “villaggio” sono state trasposte a livello mondiale. Se in un quartiere, o in un piccolo paese, c’è un furto o un omicidio, scatta sempre una sorta di “panico” verso un certo tipo di pericolo potenziale. Vi sono, ovviamente, gravi aspetti negativi: alcune persone abusano della ritrovata sensibilità e attualità di un tema per tornaconto personale. Oppure possono essere mosse false accuse che, in un certo “humus mediatico”, trovano fondamento aprioristico, la famosa “caccia al mostro”.

La violenza sulle donne non è stata la prima “emergenza globale”, ce ne sono state altre: anni fa ci fu lo scandalo pedofilia, tuttora c’è quello degli hacker russi (se un politico occidentale oggi non dice che è colpa di un russo non è nessuno) e così tanti altri. Quello che colpisce della situazione in oggetto è la spontaneità della stessa. Negli altri casi è sempre stato facile individuare il beneficiario di una certa emergenza globale. Invece ad oggi si può parlare di un vero e proprio fenomeno spontaneo di massa autoalimentatosi. Ciò dimostra, letteralmente, come il “villaggio” sia ormai interdipendente e come si debba ragionare in termini di “domanda/offerta” anche in ambito etico.